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10 agosto 2011
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Maltrattamenti in famiglia anche se la convivenza e' more uxorio
di Annalisa Gasparre*

CONSOLIDATO L’ORIENTAMENTO CHE INTERPRETA IL CONCETTO DI FAMIGLIA IN SENSO AMPIO NELL’APPLICAZIONE DELL’ART. 572 C.P.
Trib. Bologna Sent. 20/06/2011 imp. Ca. Ma.

“Famiglia” in che senso?

Il bene giuridico protetto dalla norma dell’art. 572 c.p. denominato letteralmente “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” è quello della famiglia intesa in senso ampio, non strettamente civilistico, ma socio-culturale, includendo perciò anche la famiglia di fatto, basata anche su una convivenza more uxorio. E ciò a prescindere dal tenore della norma che alcun cenno fa a tali ipotesi.

Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il richiamo alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (Cass. pen. nn. 40727/09 – 20647/08 – 39338/08). La Costituzione, da parte sua, dice che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.), ma a ben vedere non esclude, con tale definizione, l’ipotesi che la famiglia sia comunque una formazione sociale, da tutelare e proteggere quale proiezione dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Cost. nella parte denominata “Principi fondamentali”.

In via applicativa, quello che rileva nell’interpretazione dell’art. 572 c.p., secondo dottrina e giurisprudenza, è la convivenza, la comunanza di vita “nei fatti”, anziché i rapporti che scaturiscono da negozi giuridici (qual è il matrimonio).

Insomma: quello che è da proteggere sono le “persone” nella loro integrità psico-fisica rispetto ad altre persone con cui hanno rapporti costanti, quotidiani, confidenziali, di fiducia e rispetto reciproco, di collaborazione e di solidarietà, piuttosto che un concetto giuridico di famiglia, quale poteva essere quello che avevano in mente nel Codice del 1930.

A conferma dello sviluppo teorico e pratico del concetto, ampliando in modo analogo il concetto di “famiglia” ai mutamenti socio-culturali e alle connesse esigenze di tutela di tali “formazioni”, la Legge 5 aprile 2001 n. 154 denominata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”, ha introdotto, in ambito penale, la misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.) e, in ambito civile (anticipando la soglia di protezione nei casi in cui non si configuri ancora reato), i c.d. ordini di protezione, per i casi di violenza domestica, esplicitando la ricorribilità in favore del convivente, laddove vi sia grave pregiudizio per l’integrità fisica o morale o per la libertà di questo (artt. 342 bis e 342 ter c.c.).

Giustamente il legislatore ha posto l’accento – finalmente – sulle “relazioni familiari”, anziché sul negozio giuridico eventualmente sottostante la relazione, da cui scaturiscono diritti e doveri di tipo privatistico, ritenendo parimenti degna di protezione la famiglia “di fatto”, o meglio, i soggetti deboli della stessa.

I fatti e la sentenza del Tribunale di Bologna del 20/06/2011

La condotta richiesta è genericamente quella di maltrattamento, con aumenti di pena se deriva una lesione grave, che porta il trattamento sanzionatorio “base” da uno a cinque anni a quello “aggravato” da sette a quindici anni, aumentando ancora in caso di morte che sia derivata dal maltrattamento.

Il delitto è perseguibile d’ufficio, anche se è piuttosto evidente che generalmente sarà la vittima a portare a conoscenza delle Autorità lo stato di maltrattamento in cui versa. In questo senso può affermarsi che la vittima svolge un fondamentale ruolo di “filtro selettivo”. Tuttavia, la perseguibilità d’ufficio consente di procedere anche nel caso in cui la vittima dei maltrattamenti rimetta la querela (il che avviene spesso, soprattutto in quelle situazioni patologiche in cui la convivenza permane – al pari della sopraffazione del carnefice), come – lo anticipiamo – è successo nel caso in commento.

Perciò, il bene giuridico tutelato riteniamo rimanga di rilevanza pubblicistica, atteso il regime di perseguibilità che prescinde dalla volontà delle vittime dirette interessate, arrivando persino a manifestarsi in senso contrario a questa. Nel caso sottoposto al Tribunale di Bologna, le condotte poste in essere dall’imputato nel periodo tra marzo e agosto del 2008 si erano connotate in particolare per un concorso di ingiurie, minacce, percosse e lesioni procurate alla convivente, tutte documentate.

La convivenza tra i due proseguiva fino al 2010 e quindi anche nelle more del procedimento penale, durante il quale la donna rimetteva tutte le (numerose) querele sporte verso il convivente nell’immediatezza dei singoli eventi, arrivando addirittura ad affermare di aver dichiarato falsamente ai Carabinieri di essere stata minacciata con un coltello (tale “ritrattazione” ha prodotto l’invio degli atti alla Procura per eventuale apertura di un fascicolo penale nei confronti della donna).

In ossequio alla perseguibilità d’ufficio delle condotte poste in essere dall’imputato, il Tribunale giungeva a giudicare i fatti – unitamente ad altri reati – affermando l’integrarsi della fattispecie dell’art. 572 c.p. poiché “l’imputato ha posto in essere per un considerevole arco di tempo tutta una serie di atti (di disprezzo, di minaccia e di violenza) certamente lesivi dell’integrità psico-fisica della convivente Ga.Si., nei confronti della quale è stata posta in essere una condotta di sopraffazione abituale e sistematica, tale da rendere la convivenza intollerabile”. .

* esperta di diritto penale e procedura penale, membro del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio


per approfondire...

La sentenza del Tribunale di Bologna

Obblighi di assistenza tra coniugi: realta' al confine tra illecito civile e penale

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