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Difendere i confini non è un principio, è uno slogan
di Giuseppe Franco Arguto
𝘋𝘪𝘳𝘦 “𝘥𝘪𝘧𝘦𝘯𝘥𝘦𝘳𝘦 𝘪 𝘤𝘰𝘯𝘧𝘪𝘯𝘪” 𝘤𝘰𝘮𝘦 𝘴𝘦 𝘴𝘪 𝘴𝘵𝘦𝘴𝘴𝘦 𝘳𝘦𝘴𝘱𝘪𝘯𝘨𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘶𝘯 𝘦𝘴𝘦𝘳𝘤𝘪𝘵𝘰 𝘦̀ 𝘶𝘯𝘢 𝘳𝘢𝘱𝘱𝘳𝘦𝘴𝘦𝘯𝘵𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘪𝘥𝘦𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪𝘤𝘢: 𝘴𝘦𝘳𝘷𝘦 𝘢 𝘵𝘳𝘢𝘴𝘧𝘰𝘳𝘮𝘢𝘳𝘦 𝘱𝘦𝘳𝘴𝘰𝘯𝘦 𝘪𝘯 𝘮𝘰𝘷𝘪𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘪𝘯 𝘶𝘯𝘢 𝘤𝘢𝘵𝘦𝘨𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘰𝘴𝘵𝘪𝘭𝘦, 𝘢 𝘳𝘪𝘥𝘶𝘳𝘳𝘦 𝘭𝘢 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘭𝘦𝘴𝘴𝘪𝘵𝘢̀ 𝘢 𝘶𝘯’𝘪𝘮𝘮𝘢𝘨𝘪𝘯𝘦 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘭𝘪𝘤𝘦, 𝘴𝘱𝘦𝘯𝘥𝘪𝘣𝘪𝘭𝘦 𝘦 𝘦𝘮𝘰𝘵𝘪𝘷𝘢.
Un’assoluzione in sede penale può chiudere un procedimento, ma non può chiudere una questione politica, né tantomeno etica. Trasformare un esito giudiziario in un manifesto, con la formula “difendere i confini non è reato”, è il passaggio tipico dalla realtà al marketing: il diritto diventa cornice, lo slogan diventa sostanza.
E qui sta il punto: che cosa significa davvero “difendere i confini”?
Perché i confini non sono esseri viventi. Non soffrono, non annegano, non chiedono asilo. Il confine è un dispositivo amministrativo e simbolico. La vita, invece, è un fatto concreto.
L’Italia, per Costituzione, si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e riconosce un diritto d’asilo quando nel Paese d’origine è impedito l’esercizio delle libertà democratiche (art. 10). Questo significa che la politica non può trattare la mobilità umana come un capriccio o come un’aggressione. La prima lente, in uno Stato di diritto, è la tutela della persona.
In mare poi il punto è ancora più netto: non esiste un “diritto a non vedere”. Il soccorso è un obbligo e non si esaurisce nel gesto tecnico di “tirare su” qualcuno dall’acqua, ma si completa con lo sbarco in un luogo sicuro. Il principio di non respingimento, inoltre, impedisce che persone vengano rimandate verso luoghi in cui rischiano trattamenti inumani o degradanti.
E qui si innesta l’elemento più inquietante, perché è rivelatore: quando un vicepremier e ministro degli Esteri arriva a sostenere pubblicamente che “il diritto internazionale è importante, ma fino a un certo punto”, il messaggio reale è questo: la legge vale finché non disturba l’interesse politico del momento. Ma se la legge vale “a tratti”, allora non è più legge. È arbitrio. E l’arbitrio, nella storia, non ha mai difeso i popoli: ha difeso i poteri.
Le migrazioni non sono un incidente della contemporaneità e non sono un complotto “contro” un Paese. Sono un tratto strutturale delle società umane: ci si sposta per sopravvivere, lavorare, ricongiungersi, sfuggire a guerre, carestie, persecuzioni, collassi economici e climatici. La storia dell’umanità è una storia di attraversamenti, incroci, mescolanze, apprendimento reciproco.
Dire “difendere i confini” come se si stesse respingendo un esercito è una rappresentazione ideologica: serve a trasformare persone in movimento in una categoria ostile, a ridurre la complessità a un’immagine semplice, spendibile e emotiva.
Quando una società è attraversata da precarietà, disuguaglianze, impoverimento e sfiducia, la politica che non vuole toccare i veri centri di potere cerca un colpevole “portatile”: qualcuno che non vota, che ha poca voce, che è facile additare. È un’operazione di spostamento: il conflitto sociale viene deviato su un bersaglio fragile e visibile.
Così l’ansia collettiva viene tradotta in ostilità verso chi arriva, mentre vengono normalizzati i meccanismi che davvero erodono il bene comune: evasione fiscale, privatizzazioni opache, lavoro svalutato, precarizzazione, tagli strutturali, delocalizzazioni.
“Difendere i confini” diventa una parola d’ordine sempre e solo contro chi attraversa per necessità, mai contro ciò che attraversa per profitto. Eppure, se davvero il bene comune fosse la stella polare, la “difesa” dovrebbe riguardare prima di tutto:
• chi sottrae risorse alla collettività evadendo le tasse,
• chi delocalizza inseguendo sfruttamento più feroce e diritti compressi,
• chi trasforma il lavoro in una merce scadente e la vita in un costo da tagliare.
Ma questa difesa non fa comizi. Non produce paura pronta all’uso. Non genera consenso a breve.
Se l’Europa vuole essere davvero una comunità fondata sul diritto e non sulla forza, deve fare l’opposto della propaganda: rendere ordinario ciò che oggi viene reso clandestino. Canali legali e trasparenti, corridoi umanitari, ricongiungimenti rapidi, quote credibili, accoglienza dignitosa, cooperazione non coloniale. Il punto non è “aprire tutto” o “chiudere tutto”, ma smettere di usare le persone come scenografia e governare la realtà con strumenti civili.
E qui arriva l’ultima contraddizione, proprio mentre i credenti si apprestano a celebrare il Natale e tra questi il fervente religioso Salvini: costoro celebrano la nascita di un bambino in una grotta, nato da una famiglia costretta allo spostamento e poi alla fuga per sottrarsi alla violenza del potere. Se quella scena fondativa è davvero il cuore di una fede autentica, allora non si può trasformare il Mediterraneo in un palcoscenico di durezza, razzismo e xenofobia.
Non si può venerare una storia di ricerca di salvezza e, nello stesso tempo, criminalizzare la salvezza quando prende la forma di chi bussa oggi alle nostre porte.
𝙇𝙖 𝙙𝙞𝙜𝙣𝙞𝙩𝙖̀ 𝙙𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙞 𝙪𝙢𝙖𝙣𝙞 𝙫𝙞𝙚𝙣𝙚 𝙥𝙧𝙞𝙢𝙖 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙫𝙖𝙣𝙞𝙩𝙖̀ 𝙙𝙞 𝙪𝙣 𝙘𝙤𝙣𝙛𝙞𝙣𝙚.
 
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