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Di Maio, una beffa nella complessa questione palestinese
di Raffaele Florio
C’è qualcosa di profondamente istruttivo, quasi pedagogico, nella parabola internazionale di Luigi Di Maio. Un uomo che non ha mai lasciato traccia di competenza nella politica interna italiana riesce, con una regolarità che sfida le leggi della fisica, a planare su incarichi sempre più delicati, sempre più lontani dal voto popolare, sempre più impermeabili a qualsiasi forma di verifica democratica.
Dall’ex capo politico di un movimento nato per “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno” al possibile vicesegretario generale dell’Onu, con deleghe su uno dei conflitti più complessi, sanguinosi e stratificati del pianeta: Israele e Palestina. Se non fosse tragicamente reale, sarebbe una satira riuscita male.
Di Maio non rappresenta un’eccezione: è il prodotto più puro di una diplomazia internazionale che ha smesso di premiare il merito e ha iniziato a riciclare figure politicamente esauste, purché innocue, duttili e perfettamente allineate. Non servono visione, conoscenza storica, padronanza dei dossier o autorevolezza negoziale: serve l’arte suprema della sopravvivenza, quella di non disturbare mai nessuno.
Il problema non è solo Di Maio. Il problema è ciò che la sua carriera racconta del sistema. Perché affidare il coordinamento del processo di pace in Medio Oriente a una figura priva di qualsiasi esperienza strutturata in politica estera, senza una produzione diplomatica degna di nota, senza un pensiero riconoscibile sul conflitto israelo-palestinese, equivale a certificare il fallimento della diplomazia come cosa seria.
Di Maio è l’uomo che ha incarnato tutte le contraddizioni del populismo italiano e che ora viene promosso a simbolo di stabilità globale. L’uomo delle gaffe, delle frasi imprecise, della politica ridotta a slogan, oggi elevato a custode di equilibri che richiederebbero profondità, rigore e statura morale. Non c’è nulla di personale in questa critica: è un giudizio politico e istituzionale.
In questa ascesa non c’è nulla di “formidabile”. C’è solo la dimostrazione che, nel mondo delle organizzazioni sovranazionali, l’assenza di identità può essere un titolo di merito. Meglio un funzionario senza spigoli che una personalità capace di disturbare le potenze, di prendere posizione, di chiamare le cose con il loro nome.
Se la pace in Medio Oriente deve essere affidata a chi ha attraversato la politica italiana come un oggetto trasportato dalla corrente, allora non siamo davanti a una speranza, ma a una resa. Non alla diplomazia, ma alla sua caricatura.
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