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06 dicembre 2025
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Francesca Albanese risponde a Padellaro
di Soumaila Diawara

Una lettera da leggere.

Un testo potente, necessario, lucidissimo.

Francesca Albanese rimette al centro ciò che molti fingono di non vedere: la sproporzione morale e politica tra l’indignazione per un muro imbrattato e il silenzio assordante davanti all’uccisione di oltre 220 giornalisti, ai bombardamenti, alla distruzione sistematica di un popolo.

La sua analisi non è “straparlare”, è l’esercizio più alto di responsabilità civile.

In un clima dove il dibattito pubblico si è ridotto a slogan e caricature, questa lettera è un promemoria di ciò che dovrebbe essere il giornalismo, la politica, la coscienza collettiva.

Il rumore attorno alla sua figura non è casuale: serve a distogliere lo sguardo dal genocidio in corso e dalla straordinaria mobilitazione di migliaia di persone che, nelle piazze italiane, chiedono verità, giustizia e coerenza.

Una voce scomoda, certo.

Proprio per questo indispensabile.

* * *

Straparlo? Il rumore intorno a me, un’arma per distrarre da Gaza. Polemica su “monito” e media. “Difendo ogni giorno la libertà d’espressione, ma sulla Striscia la copertura è superficiale, e sono stati uccisi 220 giornalisti. In Italia si vogliono oscurare le piazze”

di Francesca Albanese

Caro dottor Padellaro, ho letto con attenzione il suo commento sul Fatto di giovedì e l’ho apprezzato, mi permetto però alcuni piccoli chiarimenti, necessari per correttezza verso il mio ruolo, oltre che verso la mia persona.

Non credo di “straparlare”, esprimo ciò che penso rendendomi disponibile a rispondere a giornalisti di tutto il mondo ogni giorno, tra continue conferenze e un delicato lavoro di inchiesta che da tre anni mi porta a confrontarmi con istituzioni, accademie e società civile dei cinque continenti. Le mie posizioni sono il frutto di studio, esperienza sul campo e un mandato Onu che non si improvvisa. I tanti riconoscimenti ricevuti dovrebbero essere motivo di orgoglio anche per l’Italia. Capisco che alcune mie critiche possano apparire “fuori dal coro” italiano, ciò non le rende meno fondate. Se talvolta il mio tono è sembrato brusco me ne assumo la responsabilità, ma trovo francamente disturbante la reazione scomposta seguita alle mie parole dopo l’aggressione alla sede de La Stampa.

Non ho mai, mai, auspicato violenza contro chicchessia, come potrei io che da una vita mi batto contro la violenza in tutte le sue forme?, né ho mai inteso che ciò che è accaduto potesse servire da “avvertimento” ai giornalisti, come qualcuno ha fantasiosamente suggerito, pontificando sulla parola “monito” e sul virgolettato trasfigurato ad arte all’interno del quale è stato fatto circolare. Il mio richiamo era, ed è, alla necessità di riflettere sul diffuso clima di imprecisione, superficialità e violenza verbale ed epistemica consolidatosi in Italia, di cui la copertura mediatica della Palestina è esempio. Un clima da cui tutti dovremmo difenderci, ciascuno facendo il proprio lavoro con rigore.

Difendo la libertà d’espressione ogni giorno, inclusa quella degli attivisti israeliani che operano nel Territorio palestinese occupato, pagando spesso un prezzo alto per questo. Proprio per questo considero gravissimo che oltre 220 giornalisti siano stati uccisi a Gaza negli ultimi 750 giorni, un fatto che in Italia passa quasi sotto silenzio, quando non viene addirittura liquidato con insinuazioni indegne. In un ordine di valori universale, l’uccisione anche di un solo giornalista è decisamente più grave dell’imbrattare un muro, pur essendo anch’esso un gesto da condannare. Fa spavento che la mattanza di giornalisti in corso a Gaza, insieme a medici, scienziati, accademici e bambini, non susciti una reazione pubblica almeno altrettanto seria, lucida e compassionevole.

Quanto al suo riferimento alla mia presunta “popolarità inaspettata e forse insperata”, Le assicuro che non è certo motivo di giubilo. Ne farei anzi molto volentieri a meno, dato che è il frutto dell’essere divenuta testimone quasi oculare di un genocidio, e delle persecuzioni seguite alle denunce che il mio ruolo mi impone di formulare. Trovo infatti che l’attuale rumore attorno alla mia persona stia servendo a continuare a ignorare i crimini incessanti di Israele e, insieme, a non raccontare la straordinaria presa di coscienza che sta attraversando l’Italia.

L’abbiamo vista di nuovo, potente, limpida, incontestabile, riversarsi per le strade di Genova e Roma il 28 e 29 novembre: decine di migliaia di cittadine e cittadini hanno risposto alla chiamata dei camalli di Genova, dei portuali, dei sindacati di base, degli studenti, di persone comuni che non vogliono più essere bestie da soma e pretendono di sapere perché debbano portare fardelli insopportabili. Il fardello del genocidio, commesso anche con il loro involontario contributo, ma anche quello di un futuro ipotecato, mentre i soli a prosperare sono i produttori di armi e di sistemi di sorveglianza.

Questo mi permette anche una riflessione sul tema, certo non prioritario, delle cittadinanze onorarie, delle chiavi, dei sigilli e dei premi che ho iniziato a ricevere subito dopo essere stata sanzionata dagli Usa la scorsa estate. Ho sempre risposto allo stesso modo: non conferitemi nulla se non potete sostenerne il peso. Per quanto le sanzioni siano gravi e vessatorie, la vera vittima non sono io ma il popolo palestinese, travolto da una furia genocida che in soli due anni ha ucciso o ferito 200.000 persone a Gaza e lasciato quasi due milioni di sopravvissuti senza casa, costretti a vivere in tende allagate, con poco cibo e quasi nessun medicinale.

Per questo mi considero, al massimo, una custode temporanea di quei riconoscimenti e, soprattutto, del dovere che essi comportano. Chi me li offre sa che essi comportano coerenza politica, come hanno dimostrato quei Comuni e altri enti e istituzioni che hanno avuto il buon senso di interrompere i rapporti con uno Stato oggi sotto processo per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.

Dinanzi a tutto questo non vedo alcuna ragione per mascherare il mio sgomento di fronte a un ordine internazionale che, grazie alla complicità di troppi Stati e di chi tace o giustifica crimini che andrebbero invece denunciati, si è tragicamente e pericolosamente inceppato. Quando il sistema pubblico, dalle istituzioni all’informazione, abdica al proprio compito, il prezzo lo pagano sempre i più vulnerabili.

La ringrazio comunque per aver posto la questione con misura. Il confronto civile resta essenziale, soprattutto ora, mentre la libertà di parola si restringe e mentre, altrove, si muore per raccontare la verità. Io continuerò a fare il mio lavoro con rigore e senza infingimenti, come si addice a chi cerca di servire il diritto, incurante dell’opportunità del momento.

Con stima. La ringrazio.

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