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Gli olivi strappati
di
Rossella Ahmad
Le scene dei rami degli olivi secolari tranciati con indifferenza e gettati in terra come oggetti inutili, inanimati, sono le più simboliche, e dolorose, del genocidio palestinese. Io comprendo quel dolore.
Vivo tra loro da eoni e conosco la sacralità che rivestono quei rami flessuosi punteggiati di foglie e frutti argentei, ed il liquido dorato che da essi sprigiona e che è salvezza e cura. Ogni malanno ha origine dal freddo ed ogni malanno ha la sua cura nell'olio d'oliva.
Ti si è spezzata l'unghia dell'anulare destro? È colpa del freddo. Davvero? Davvero, wallah.
Un po' d'olio d'oliva e passa.
Durante una delle mie lunghe e numerose permanenze in Giordania, la terra che raccoglie più palestinesi in assoluto, mia figlia, bimbetta di pochi anni, sviluppò una probabile tonsillite, con febbre molto alta. In attesa che spuntasse il giorno per recarci al centro medico di Dulayl, ci fu suggerito di vedere Umm Ayman.
"Vedrai che la bimba starà meglio, dopo".
E di quel "dopo" sono testimone oculare.
Ricordo il suo ingresso nella nostra camera: una vecchina palestinese piccola piccola, che avanzava reggendosi ad un robusto bastone, il lungo velo di Betlemme le scendeva sulla schiena curva e toccava terra, il volto bianchissimo, solcato da innumerevoli pieghe era illuminato da due vividi occhi azzurri. Si sedette con infinita cura presso mia figlia , le prese il braccino tra le mani nodose e con gesti antichi cominciò a massaggiarne vigorosamente l'interno del polso e del gomito, aiutandosi con olio d'oliva tiepido. Una, due, tre volte. Forse di più.
Il mattino seguente la febbre era sparita ed i linfonodi del collo della mia bimba erano drasticamente ridotti di volume. L'antibiotico prescritto dalla giovane dottoressa del centro medico coadiuvò una guarigione già innescata dalle antiche mani di Umm Ayman.
Ricordo che andai a ringraziarla poco prima di rientrare in Italia, ne ricordo la piccola casa circondata da un uliveto, ricordo il calore del suo abbraccio e gli indici sollevato al cielo per implorare su di me la divina clemenza. E ricordo la sua morte, qualche anno dopo, e la consueta fitta al cuore nel sapere che un'altra anziana palestinese, vestita come le statuine dei presepi, era morta in esilio. L'ennesima di mia conoscenza. Chissà se aveva rivelato a qualcuno i suoi segreti e la sua arte antica, tutta palestinese, fatta di dita sapienti e di oli miracolosi.
Quest'autunno abbiamo acquistato chili e chili di olive appena raccolte. Tra le foglie ed i frutti ho sentito il profumo della Palestina. Nelle mie mani che si muovevano con rapidità ho ritrovato i gesti visti dozzine di volte ed interiorizzati fino a divenire miei.
Una quantità di vasetti piccoli e grandi mi contempla da un angolo della credenza, ed io contemplo loro. Attendo la maturazione, che avverrà al momento giusto. Nel mentre, l'amaro si dissolve, trasformandosi per non so quale alchimia nel dolce sapore del frutto più bello, quello che resiste, che è metafora della vita.
Metafora della Palestina.
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