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04 dicembre 2025
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Le donne del bazar 33
di Rinaldo Battaglia *

Non serve andare lontano, non serve davvero arrivare ad Auschwitz per capire l’abisso della mente umana, perché Auschwitz era solo la fine di un viaggio – di quell’ultimo viaggio – partito ben prima da più luoghi. Non serve. Basta fermarsi poco lontano da dove sono nato, al campo di Vò Vecchio.

Nel Comune di Vò – divenuto famoso in Italia per il primo caso di Covid nel 2020 - esisteva uno degli sconosciuti oltre 200 campi di concentramento sul suolo italiano, gestiti dai fascisti poi promossi, dopo l’esame dell’8 settembre ’43, a repubblichini di Salò. Non unico in provincia di Padova e situato sotto gli Euganei sul confine col basso vicentino, a neanche 20 km da Lonigo, dove io sono nato e cresciuto.

Qui vi era una villa storica del Seicento con un grande parco. Secoli prima era stata la residenza dei signori Contarini-Giovannelli-Vernier e fino ad allora usata quale dimora estiva delle suore elisabettine di Padova, che da oltre cento anni erano dedite all’assistenza di orfane e fanciulle abbandonate.

Pensate: una villa, in un contesto da classico stile impero, peraltro, trasformata in fretta e furia dal 3 dicembre ‘43 – dopo ovviamente e conseguentemente la ‘fascista’ Carta di Verona del 17 novembre – in un 'campo di raccolta e concentramento' di famiglie ebree venete, da destinare alla Shoah.

Non è mai stato chiaro il numero complessivo dei deportati, stipati nei quattro piani della grande villa (qualcuno parla anche di un centinaio, ma non è stato mai documentato e provato). Una settantina è più ipotizzabile, forse qualcuna meno.

Da quel 3 dicembre 1943 a Vò Vecchio, infatti il prefetto fascista di Padova, Federico Menna, iniziò a deportare gli ebrei della sua zona di competenza (e non solo), dopo averli derubati di tutto. Il campo di concentramento di Vò Vecchio era stato ufficialmente aperto il giorno prima, ma i primi ‘ospiti’ arrivarono solo in quel 4 dicembre. Userà - come detto - come ‘location’ la villa storica del Seicento, con un grande parco, dove secoli prima alcuni signori veneti (dapprima i Contarini, poi i Giovannelli a suo tempo padroni della mia Lonigo, e poi i veneziani Vernier) godevano di un’ampia azienda agricola con case, stalle, immobili annessi oltre alla maestosa villa padronale su quattro piani.

Il prefetto Menna da buon fascista aveva capito molto bene i messaggi ricevuti: il giorno 17 novembre ‘43 il Duce a Verona aveva decretato che gli ebrei italiani erano nemici ed in quanto tali dovevano essere arrestati e deportati. Al fine di evitare confusioni o incomprensioni, inoltre, in data 30 novembre, 4 giorni prima, il Duce aveva dato il via alla ‘caccia all’ebreo e ai suoi beni’ ufficializzando il tutto con l’ordinanza n. 5 firmata per suo ordine dal suo braccio destro (nel campo razziale) e ministro degli Interni, Guido Buffarini Guidi, di suo pugno.

Ogni fascistone ed ogni prefetto fu così autorizzato a fare qualsiasi cosa contro gli ebrei, uomini, donne o bambini che fossero. E Federico Menna non volle non approfittare del momento propizio.

Da una parte legalmente usò le Forze dell’Ordine – e qui il maresciallo Salvatore Lepore (che sarà posto al comando del campo di Vò Vecchio) si esaltò – dall’altra usò le forze ‘illegali’, ossia bande di criminali comuni che non erano fascisti per definizione ma grazie al fascismo lavoravano e al fascismo servivano per i lavori sporchi. E qui si esaltarono soprattutto la banda Carità – che Menna da buon toscano aveva importato nel Veneto dalla sua terra – e le bande native del posto (quella che faceva capo agli Allegro) o quelle arrivate da poco (quella militare-sarda Barracu-Fronteddu dove Bartolomeo Fronteddu era leader indiscusso).

Per non perdere nessun colpo usò poi la ‘rete commerciale’ del più grande venditore di ebrei – il triestino Mauro Graziadio Grini – che essendo ebreo ed essendo fascista poteva spaziare dappertutto, senza limiti o confini. Anche nei territori di competenza di altri (Vicenza e Venezia, ad esempio).

E così per ‘soddisfare’ le esigenze del basso vicentino e della zona di Este, Montagnana e Monselice, ricorse al comodo campo di Vò Vecchio. Come prima detto, non è mai stato chiarito o verificato il numero complessivo dei deportati. Di certo 47, quelli spediti ad Auschwitz il 17 luglio 1944, in quello che sarà l’ultimo viaggio.

Per meglio capire cos’è stato il fascismo nella mia terra e la Shoah nel mio Veneto, vi voglio oggi raccontare la vicenda di due di quelle 47 anime, due delle vite che si fermeranno per sempre nel 'lager dei lager': Emma Ascoli e la figlia Anna Zevi.

La loro famiglia nell’inverno ’43 gestiva, malgrado tutto, ancora un vecchio negozio di merceria ad Este, in via Roma (ora Piazza Maggiore, angolo Via Matteotti), il ‘Bazar 33’ (oggi quell’immobile ospita una filiale bancaria). La situazione economica era triste, specialmente dopo che era morto, qualche anno prima, il marito Arturo Zevi. Il 4 dicembre, essendo sabato, vollero ancora partecipare al mercato settimanale, dove speravano di vedere e ricavare qualcosa in prossimità del Natale.

Vendevano di tutto, come tutti i negozi di allora in quegli anni di 'vacche magre'. Erano ebree ma ben volute e conosciute come persone oneste e quindi credevano di non essere ‘pericolose’. Certo, segnali ne avevano ricevuto e ben chiari: il figlio maggiore di Emma, Umberto Primo Zevi (pensate: chiamato così in onore del re precedente), nel ‘38 era già fuggito da dove abitava (a Castelmassa, nel padovano) dopo esser stato licenziato dalla banca in cui lavorava, solamente perché ebreo. Era riparato, nascosto da clandestino, rifugiandosi in una fattoria di San Cosma a Monselice e, grazie quei 'sani' contadini (la famiglia di Antonio Sette), riuscirà a salvarsi.

Anche Anna aveva già convinto la mamma Emma a preparare le valigie e fuggire. Ma pensarono che si potesse ancora aspettare qualche ora, dopo il mercato.

Ma verso le 11 di mattina di quel 4 dicembre, in negozio arrivarono i tedeschi su indicazione molto probabilmente di un dipendente comunale della sezione fascista di Este. Probabilmente 'vendute' al ‘prezzo’ di 3.000 lire per ciascuna. O, forse, dato l’aumento dei prezzi praticato in quei giorni da Mauro Grini nella vicina Venezia per gli ‘uomini’ (5.000 lire), pur essendo loro solo ‘donne’, facilmente qualcosa di più.

Vennero entrambe arrestate e trascinate tra i loro pianti e forti urla, fuori dal negozio come fossero ladre e portate in caserma dai Carabinieri. Non fu loro concesso nemmeno il tempo di chiudere la porta del negozio. E, infatti, subito qualche morto di fame locale ne approfittò. Del resto, Este (allora come Ateste) era già nota e viva ai tempi di Roma e i latini dicevano, non a caso, ‘vita mea, mors tua’.

Il negozio sarà chiuso a chiave dal consuocero (il padre, non ebreo, della moglie di Umberto Primo), Marco Baratella, che informato di quanto accaduto cercò almeno di chiudere le porte del ‘bazar’ per cercare di salvare il salvabile.

Nel tragitto nessuno si mosse, ad Este tutti videro e nessuno intervenne. Erano abituati oramai, erano anestetizzati da troppi anni per svegliarsi. Al massimo qualcuno faceva le corna, come era diventato uso e consuetudine davanti agli ebrei. Così avevano loro insegnato con quel maledetto ‘La difesa della Razza’ diretto da Giorgio Almirante (dal 20 settembre 1938,) dove già sui banchi di scuola si seminava l’odio verso gli ebrei, sin dalla prima copia del 5 agosto ‘38, sin da bambini.

Solo dopo, in caserma si presentò una piccola donna, cliente del negozio, forse legata a qualche carabiniere – Clara Lelli Mami Righi originaria di Cesena - che insistendo riuscì a farsi consegnare le due povere donne per una notte, affinché almeno dormissero in un letto a casa sua, in Piazza Trento, a poche decine di metri dal ‘Bazar 33’ (oggi è sopra all’attuale negozio Marchetto). Il giorno dopo, le guardie che mai, mai avevano abbandonato di controllare quella casa, andarono a riprendersele e portarle, tra Padova e Vicenza, ad una decina di chilometri da Este, in quella Villa Contarini- Giovanelli-Vernier, trasformata da poche ore in un campo di concentramento fascista.

Era il 5 dicembre 1943. Miracolosamente, prima fu permesso loro di passare per un attimo alla loro piccola casa di abitazione (in Via Macello, sempre ad Este) a pochi passi del Palazzo Vescovile, dove la Wehrmacht del capitano William Lembke, il terribile e sadico comandante nazista della zona Padova Sud, aveva posto peraltro il suo comando.

Emma Ascoli e la figlia Anna rimasero nel campo di Vò Vecchio fino al 17 luglio ’44 quando anche loro vennero spedite alla Risiera di San Sabba e, da qui, ad Auschwitz per la camera a gas. Emma fu gasata già il 4 agosto, immediatamente all’arrivo. Non vi sono invece notizie certe sulla figlia: tutto lascia pensare che sia morta durante quel viaggio maledetto.

In ogni caso non tornarono più nel loro piccolo negozio di cianfrusaglie e nel loro modesto appartamento. Solo dopo qualche giorno, si verrà a sapere che anche l’abitazione era stata persino svuotata. Anche dei mobili meno di valore. Del resto, tutti sapevano che Emma ed Anna non avrebbero più fatto ritorno. Erano ebrei, ‘spazzatura’ del mondo, nemici del Duce e di Hitler, erano solo acqua che scorre. E nel mio Veneto, sin dai tempi di Venezia, da sempre grazie all’acqua si campa.

A testimoniare, a guerra finita, sarà la nuora Paolina Baratella, moglie di Umberto Primo Zevi, che, quando le veniva permesso – in quanto ‘non ebrea’ - portava qualche cosa da mangiare alla suocera e alla cognata, in bicicletta, accompagnata sempre dal padre Marco, quale ‘garante’.

Pensate: durante i 7 mesi di ‘campo’ Marco Baratella, più volte scrisse al Prefetto di Padova, il fascistone Federico Menna senza alcuna risposta. Nemmeno il fatto della cattiva salute di Emma Ascoli (classe 1877) e della figlia Anna (malata di epilessia, tra l’altro) fu utile alla causa.

Erano veramente solo due donne ebree, razza inferiore, carne da macello, buone solo da derubare e su cui ingrassarsi. Valevano assieme sulle 5.000 lire, un anno abbondante di lavoro di un operaio per chi un lavoro allora lo aveva, in quegli anni di guerra e fame.

Fa, comunque, oggi piacere sapere che - mentre a Noventa Vicentina, già nell’agosto 2016, hanno inaugurato in pompa magna una via a Giorgio Almirante - ad Este, nel luglio 2024, nell’80° anniversario dell’ultimo viaggio di Emma Ascoli e della figlia Anna Zevi, il Comune ha deciso di omaggiare Clara Lelli Mami Righi - quella giovane cliente che cercò in quel 4 dicembre 1943 di ‘dare una mano’ e una speranza alle due sventurate donne - intitolando a lei la rotonda dei giardini del Castello.

Tanto di cappello a tutti. Resta sempre da chiedersi se Clara Lelli Mami Righi si comportò così, a differenza degli altri cittadini di Este, forse perché non fosse del luogo e quindi meno ‘soggetta’ alle pressioni dei fascisti locali e alla loro forte razzista propaganda. E non solo quella.

4 dicembre 2025 - 82 anni dopo - liberamente tratto dal mio 'L'ultimo viaggio da Vò Vecchio ad Auschwitz" - ed. AliRibelli/Ventus - 2024

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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