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Delrio come Gasparri. Dove va il PD?
di
Paolo Mossetti
Altro che trasformazione in un "centro sociale". Altro che "populismo di sinistra" sul Medio Oriente: il Partito Democratico ha messo il suo bollino su un disegno di legge che rende la critica radicale a Israele quasi impossibile. Lo ha firmato il senatore Graziano Delrio, e segnala un partito in involuzione, ancora sotto scacco dei "riformisti".
Se è giusto segnalare i settarismi dei gruppuscoli per Gaza più retrivi, la cronaca ci racconta di un centrismo paranoico sempre influente, e sempre più illiberale. Il guaio è che di questa storia non parla quasi nessuno.
L’intento dichiarato da Delrio è nobile: intervenire su odio antiebraico online, nelle scuole, nelle università. Ma il ddl punta chiaramente a restaurare lo status quo nel dibattito sulla Palestina e su un alleato sempre più antidemocratico e in escalation, sabotando il Pd dall'interno. Delrio parla di “incremento incomparabile” degli episodi e di un antisemitismo “liquido” e digitale. Ma i numeri che porta con sé il ddl provengono da fonti piuttosto di parte, come il Cdec, che usano già un parametro discutibile: la definizione operativa dell’Ihra.
È una definizione che nasce ufficialmente per “monitorare le forme più sottili di antisemitismo che si celano dietro la retorica antisionista”, ha spiegato al Manifesto, intervistata da Bruno Montesano, la studiosa Valentina Pisanty, autrice del saggio Antisemitismo, una parola in ostaggio. Lei lo descrive senza mezzi termini come uno strumento che, nella pratica, allarga l'etichetta di "antisemita" così tanto da renderla inservibile, se non agli interessi dei filoisraeliani.
I dati del Cdec mostrano un aumento reale degli episodi: 241 nel 2022, 454 nel 2023. Crescono minacce, vandalismi, aggressioni, spesso in coincidenza con date simboliche. Dire che l’antisemitismo aumenta è largamente corretto. Ma il Cdec, adottando l’Ihra, include tra le possibili fattispecie antisemite anche elementi tipici della retorica antisionista: associare Israele al colonialismo, usare lo slogan “dal fiume al mare”, oppure paragonare qualsiasi cosa faccia Israele o il suo governo a colonialismo o nazismo.
Delrio, vicino a Sinistra per Israele, coautore del Jobs Act, Delrio è andato mesi fa a trovare il ministro degli Esteri israeliano, quel Gideon Sa'ar che ha sempre confermato il no alla Palestina, consegnandoci parecchie photo-op rilassate e con sorrisi smaglianti: incontri definiti "fruttuosi" dal senatore sui social. Inutile commentare sulle sue sensibilità e urgenze etiche.
Nel silenzio di giornali e divulgatori progressisti, molti dei quali afflitti da una sindrome da assedio che non gli consente di criticare certi "moderati", il ddl stabilisce che ogni valutazione dovrà basarsi proprio sulla definizione Ihra. Da lì dipenderanno le multe per scuole, docenti, università e chiunque denuncerà con parole forti la deriva di apartheid e coloni violenti.
È una proposta che si affianca a quelle analoghe della Lega, di Gasparri e di Italia Viva, che chiedono divieti di manifestazioni pro-Gaza o banche dati sugli “antisemiti”, sempre basate sull’Ihra. Ma come scrive oggi Roberto Della Seta, cofirmatario dell'appello Ebrei contro la Pulizia Etnica, il ddl Delrio «in parte fa di peggio: all’articolo 2 delega il governo – questo governo, visto che la scadenza indicata è di sei mesi – a varare uno o più decreti legislativi con prescrizioni all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) "in materia di prevenzione, segnalazione, rimozione e sanzione dei contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line di servizi digitali in lingua italiana".
Gli articoli 3 e 4 della proposta si spingono ancora oltre: prevedono che ogni Università nomini una sorta di controllore che vigili su eventuali attività interne, anche didattiche, che suonino come illegittime».
Per capirci, i parametri di questo ddl sono così estesi che schederebbero come antisemiti anche molti ebrei dissidenti in piazza in questi mesi e... Matteo Renzi. Che settimane fa, in tv, en passant, paragonò le parole di un ufficiale israeliano a quelle di un gerarca del Reich. Non a caso, l'Ihra è stato usato da Trump e in Germania per silenziare intellettuali e proteste. Speriamo ci sentano i sempre-garantisti.
Non è un caso nemmeno che ad applaudire l'iniziativa ci sia proprio Sinistra per Israele, gruppo erroneamente definito da alcune voci di peso nella stampa come "moderato", "per la soluzione a due Stati" (come se il Pd già non lo sia) in realtà impegnato soprattutto a romanzare un sionismo inesistente e ostacolare dall'interno del campo largo qualsiasi riforma diplomatica o embargo.
Le proteste dei Giovani Democratici, che insomma, non sono esattamente le Brigate Al Qassam, erano dunque fondate: sostenere questo ddl significa accettare uno strumento che crea confusione tra antisemitismo e antisionismo e punta a silenziare le critiche nei confronti di Israele senza indebolire l’antisemitismo quotidiano o più subdolo.
Le critiche non arrivano solo dai filopalestinesi doc: Kenneth Stern, che contribuì alla stesura originaria del testo da cui deriva l’Ihra, ne critica oggi l’uso “contundente”. I liberali di Volt Europa hanno recentemente votato contro l’Ihra. Il Pd sembra invece andare in controtendenza e mettere i suoi iscritti in un angolo, sulla linea Piero Fassino, il quale come se niente fosse martedì si è andato a dire alla Knesset, insieme all'ambasciatore Peled: [Israele] è una società aperta, una società libera, una società democratica, una società che anche su questi due anni e sulle prospettive ha una dialettica democratica per chi propone certe soluzioni e chi ne propone altre».
È qui che il resto del Pd dovrebbe interrogarsi. Sostenere il ddl significa accettare uno strumento che rischia di alimentare reazioni di rigetto e insofferenze ancora più razziste di quelle che vorrebbe frenare.
Sentiamo ancora Pisanty: "La linea di confine tra discorso ragionevole e irragionevole non coincide con quella tra discorso antisemita e non antisemita. Si può essere irragionevolmente ostili a Israele senza per questo essere antisemiti".
La domanda che ci resta è sempre la stessa: dove sta andando il Partito Democratico?
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