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04 dicembre 2025
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Scolasticidio
di Rossella Ahmad

Mentre leggevo la notizia della riapertura dei corsi all'università islamica di Gaza, e mentre ne guardavo le immagini - nel mezzo del Ground Zero, un'apparente normalità - ripensavo alle parole di David Grossman raccolte nel "Vento Giallo", a proposito degli studenti palestinesi che ebbe modo di vedere durante il suo tour nei territori occupati pre-intifada.

Accademie socratiche, così le definì, con volti giovani tesi nello sforzo di non perdere una sillaba, di fare fruttare i sacrifici di genitori che si toglievano il pane di bocca pur di consentire ai propri figli di studiare Letteratura. Arte. Discipline apparentemente velleitarie se confrontate alle più pragmatiche, quelle scientifiche.

E ripenso alle parole di Maya Wind, a proposito del colonialismo culturale: "Quando Israele prende di mira intenzionalmente il sistema educativo palestinese, bombardando le università a Gaza o facendo implodere gli edifici ormai vuoti, quando chiaramente non si tratta di un incidente ma di uno scolastidicio intenzionale, nessuna università in Europa dice nulla. Perché stanno proteggendo il loro stesso colonialismo. Criminalizzare o reprimere i propri studenti è prima di tutto una forma di protezione di se stessi, prima che di Israele».

Di colonialismo culturale parlò spesso, e in maniera estremamente lucida, Edward Said, il più importante intellettuale palestinese, cristiano di famiglia, laico per vocazione, musulmano culturale per appartenenza ed arabo a compendiare mirabilmente il tutto.

Il sasso che lanciò contro Israele dalla linea di confine del Libano - una delle immagini più significative della Nakba palestinese - era in realtà un sasso metaforicamente indirizzato ai suoi colleghi accademici, al mondo dell'arte e della cultura, un monolite zeppo di fili scoperti. Un microcosmo ripiegatosi su se stesso - una sorta di arte privata, quasi un mestiere - che, così facendo, perde la sua funzione primaria, che è quella di contrastare l'autorità e farsi portavoce dei senza voce.

Il sasso "intifadico", così lo definirono in Italia gli esponenti della cultura fine a se stessa, il "mainstream responsabile" senza agganci con il reale, a sottolineare il grande scandalo che suscita da sempre la violenza di ritorno del colonizzato, seppur metaforica. Riesce a raccattare lo stigma bipartisan dell'intero occidente, il reame del grottesco, in cui si corre a prendere le distanze da una vetrina infranta o da un muro imbrattato e si serba il più vergognoso dei silenzi su un popolo messo in croce fingendo di ignorare quanto i due eventi siano connessi..

Perché c'è violenza e violenza, e solo una merita di essere disinnescata, neutralizzata, decontestualizzata e rigettata. Presentata come inaccettabile perché, appunto, senza contesto. Stigmatizzata come irrazionale ed immotivata. Intrinsecamente brutale anche quando non torce un capello. Perché la ribellione che smette di essere addomesticata e che comincia a vivere di vita propria espone l'ipocrisia strutturale del potere e fa paura.

Le parole di Edward Said:

"Per come la vedo io non c’è nulla di più reprensibile di quelle abitudini mentali che inducono alcuni intellettuali a sorvolare, evitare, quel caratteristico allontanarsi da una posizione di principio delicata, divisiva, che tu sai essere giusta ma che decidi di non assumere.
Non vuoi apparire troppo ‘politico’; hai paura di dire qualcosa di controverso; vuoi mantenere la reputazione di quello ‘equilibrato’, ‘obiettivo’, ‘moderato’; la tua aspirazione è di essere interpellato nuovamente, di essere consultato, di sedere nel board di qualche prestigioso comitato, e di rimanere quindi all’interno del ‘mainstream responsabile’; un giorno magari speri di ricevere una laurea honoris causa, un premio, forse un ruolo di ambasciatore.
Per un intellettuale queste abitudini mentali sono la fonte di corruzione per eccellenza. Se c’è qualcosa che può denaturalizzare, neutralizzare ed infine spegnere la vita di un intellettuale appassionato è proprio la loro internalizzazione.
Personalmente ho incontrato questo tipo di profili occupandomi di uno degli argomenti più complicati e duri del secolo, cioè la Palestina, laddove la paura di parlare in modo aperto di una delle più grandi ingiustizie della storia contemporanea ha finito per azzoppare, accecare, silenziare molti tra coloro che conoscevano bene la verità, e soprattutto erano nelle condizioni di servirla.
Perché, nonostante gli abusi e le diffamazioni che ogni sostenitore schietto dei diritti dei palestinesi e dell’autodeterminazione si merita, la verità merita di essere comunicata, rappresentata da un intellettuale impavido e compassionevole.”

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