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29 novembre 2025
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Violenza di piazza: se non fosse questione di infiltrati o mentecatti?
di Alessandro Ferretti *

La questione della violenza politica è estremamente delicata, e quando durante un corteo accadono fatti violenti sarebbe molto importante discuterne per capirne le cause immediate, il contesto in cui si sono verificati, le motivazioni profonde e le intenzioni di chi le ha attuate.

Eppure, ormai da oltre vent'anni, ogni volta che in un corteo accade qualcosa che non rientra appieno nei canoni della sfilata pacifica, spuntano come funghi miriadi di commentatori assolutamente certi che la responsabilità sia di "infiltrati", fascisti mascherati da manifestanti o addirittura poliziotti o servizi segreti sotto mentite spoglie.

Le "prove" di tali certezze sono sempre le stesse: "la polizia ferma sempre qualsiasi azione ma queste le lasciano fare", "non catturano mai nessuno degli autori di queste azioni nonostante ci siano telecamere ovunque" e simili luoghi comuni.

Questa posizione fa pendant con l'altro grande filone, secondo il quale chi compie queste azioni sono invariabilmente cerebrolesi, mentecatti figli di papà malati di protagonismo e di voglia di apparire, persone mentalmente disturbate e via dicendo.

Per di più, questi commenti spesso arrivano da persone che non solo non erano neanche lontanamente presenti ai fatti incriminati, ma spesso non sono mai state a un corteo antagonista negli ultimi vent'anni o più.

La mia domanda è: ma perché tante persone che non sanno neanche cosa è successo sono così graniticamente certe che sia opera di infiltrati o di lobotomizzati?
Qual è il meccanismo mentale che impedisce di pensare che a compiere l'azione (giusta o sbagliata che sia) siano persone reali, magari profondamente ferite nei loro sentimenti e divorate da anni di vessazioni subite e rabbia repressa, e/o convinte (a torto o a ragione) che alzando il livello dello scontro si possa ottenere qualcosa in più?

Le risposte che si possono dare a questa domanda sono molteplici.

- La teoria complottistica dell'"infiltrazione" è rassicurante: fornisce una spiegazione ordinata e intenzionale al caos. Invece di un conflitto sociale complesso e sfuggente, la teoria ci fornisce un copione prevedibile: da un lato "noi" (puri, pacifici, legittimi), dall'altro "loro" (i manipolatori occulti).
Questo schema "noi/loro" è semplice da processare e non mette in discussione le proprie convinzioni.
Inoltre, ammettere che all'interno di un movimento di protesta ci siano persone che, per ragioni anche comprensibili (rabbia, disperazione, calcolo politico), scelgono la violenza, richiederebbe una sofferta auto-riflessione. È più facile espellere il problema etichettandolo come "estraneo" o "deviante".

- Un altro tema è la preservazione della purezza morale del movimento. I partecipanti e i simpatizzanti vedono la loro causa come giusta e moralmente legittima, ma la violenza o il vandalismo macchiano questa purezza, rischiando di far apparire l'intero movimento come pericoloso e illegittimo. Attribuire questi atti a forze esterne permette di preservare l'immagine immacolata del movimento. È un meccanismo di difesa per immunizzare l'idea centrale dalla colpa per le azioni periferiche.
Inoltre, in un clima mediatico che spesso banalizza e stereotipizza, c'è il terrore concreto che le azioni di pochi vengano usate per delegittimare le rivendicazioni di tutti. Negare che quei "pochi" siano parte autentica del movimento diventa una strategia difensiva.

- Altro punto è l'incapacità di comprendere (o voler comprendere) la razionalità alternativa, ovvero il rifiuto di considerare l'"avversario interno" come un attore politico reale, con le sue ferite e la sua rabbia. Etichettare qualcuno come cerebroleso, figlio di papà o malato di protagonismo è un classico processo di de-umanizzazione. Trasforma l'altro da un soggetto politico con una sua (pur discutibile) logica a un oggetto patologico. Se è un malato, la sua azione non è un atto politico da comprendere (e combattere sul piano delle idee), ma un sintomo da curare o un reato da reprimere.

- C'è anche un rifiuto più o meno consapevole della razionalità strumentale della violenza: chi condanna a priori qualsiasi forma di violenza fa fatica a concepire che per alcuni essa possa essere vista come uno strumento politico razionale (anche se eticamente riprovevole e strategicamente controproducente).
Azioni come imbrattare una banca o attaccare un simbolo del potere non sono viste dai loro autori come "atti da mentecatti", ma come un messaggio simbolico diretto e immediato, una rottura della normalità per costringere l'opinione pubblica a guardare, o anche solo una catarsi per una rabbia accumulata che non trova altri sbocchi.
Riconoscere questa "razionalità alternativa" costringerebbe a un dibattito scomodo non solo sui metodi, ma anche sulla natura del conflitto, ammettendo che forse la situazione è così deteriorata che per alcuni la violenza appare l'unica risposta possibile.

- Infine, abbiamo il contesto mediatico e la pigrizia intellettuale: la storia degli "scontri tra black bloc e polizia" o degli "infiltrati" è molto più semplice da raccontare in un post rispetto a un'analisi sociologica delle diverse anime di un movimento. I media, e di riflesso il pubblico, cercano storyline chiare.

Inoltre, molte persone si informano attraverso canali (social, blog, leader di opinione) che già la pensano come loro. Se il loro "narratore di fiducia" afferma che erano infiltrati, quella diventa la verità. Non serve essere stati al corteo: la verità viene mediata dalla fonte a cui si accorda fiducia.

Insomma: pensare all'essere umano complesso, sofferente e politicamente determinato che compie quell'azione è un'operazione faticosa. Richiede empatia (non giustificazione), capacità di sostenere ambiguità e il coraggio di mettere in discussione le proprie certezze, compresa quella che la nonviolenza sia l'unica tattica concepibile per tutti, in ogni contesto.

È quindi certo molto più comodo e rassicurante pensare a un burattinaio occulto o a uno squilibrato; ma attenzione, non sarà certo con questa pigrizia intellettuale che riusciremo ad affrontare le presenti e future sfide politiche. Nel nostro mondo, le politiche economiche imposte da chi detiene il potere stanno sempre più immiserendo la vita di miliardi di persone, e la violenza dall'alto è sempre più diffusamente e massicciamente impiegata per reprimere le istanze di giustizia che emergono dal basso.

Non è il momento di fare gli struzzi: la realtà va guardata in faccia, senza cercare rassicuranti scorciatoie che portano lontano dalla realtà. Come dicono i maestri: il cervello va mantenuto sempre in allenamento... perché chi alza la testa lo sa, che non è un gioco.

* Coordinatore Commissione Pace dell'Osservatorio

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