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Charter per l'esilio
a cura di Giusepppe Franco Arguto
𝘾𝙝𝙖𝙧𝙩𝙚𝙧 𝙥𝙚𝙧 𝙡’𝙚𝙨𝙞𝙡𝙞𝙤: 𝙫𝙤𝙡𝙞, 𝙩𝙧𝙚𝙜𝙪𝙚 𝙫𝙞𝙤𝙡𝙖𝙩𝙚 𝙚 𝙞𝙣𝙜𝙚𝙜𝙣𝙚𝙧𝙞𝙖 𝙙𝙚𝙢𝙤𝙜𝙧𝙖𝙛𝙞𝙘𝙖 𝙙𝙚𝙡 𝙘𝙤𝙡𝙤𝙣𝙞𝙖𝙡𝙞𝙨𝙢𝙤 𝙞𝙨𝙧𝙖𝙚𝙡𝙞𝙖𝙣𝙤
S𝘶𝘭𝘭𝘢 𝘣𝘢𝘴𝘦 𝘥𝘪 𝘢𝘳𝘵𝘪𝘤𝘰𝘭𝘪 𝘱𝘶𝘣𝘣𝘭𝘪𝘤𝘢𝘵𝘪 𝘴𝘶𝘪 𝘴𝘪𝘵𝘪 𝘋𝘢𝘪𝘭𝘺 𝘔𝘢𝘷𝘦𝘳𝘪𝘤𝘬, 𝘈𝘭𝘫𝘢𝘻𝘦𝘦𝘳𝘢, 𝘏𝘢𝘢𝘳𝘦𝘵𝘻, 𝘈𝘭𝘮𝘢𝘫𝘥 𝘌𝘶𝘳𝘰𝘱𝘦, 𝘓𝘦 𝘔𝘰𝘯𝘥𝘦, 𝘓'𝘖𝘳𝘪𝘦𝘯𝘵-𝘓𝘦 𝘑𝘰𝘶𝘳, 𝘊𝘪𝘵𝘺 𝘗𝘳𝘦𝘴𝘴
Immaginate di salire su un aereo senza sapere davvero dove state andando.
Immaginate di aver pagato migliaia di dollari, dopo mesi di assedio, fame, bombardamenti, per avere una sola promessa: “uscire da Gaza”.
È quello che è accaduto a più di centocinquanta palestinesi partiti dalla Striscia su un volo charter diretto in Sudafrica, dopo essere stati raccolti in autobus, passati per il valico di Kerem Shalom sotto controllo israeliano, trasferiti a una base militare nel Negev e imbarcati su un aereo di cui non conoscevano né il vero organizzatore, né la destinazione finale.
Una volta atterrati a Johannesburg, sono rimasti chiusi per ore dentro l’aereo, mentre le autorità sudafricane cercavano di capire chi li avesse mandati, da dove arrivassero davvero, per conto di chi.
Il nome dell’organizzazione che ha gestito tutto è Al Majd Europe.
Sul suo sito, aperto da poco, non c’è quasi nulla di verificabile: nessuna registrazione ufficiale, referenti introvabili, contatti che portano nel vuoto. Eppure, per queste “pratiche di uscita”, i palestinesi di Gaza pagano fra i 1.500 e i 2.700 dollari a testa, seguendo le istruzioni ricevute via WhatsApp da un numero che sembra israeliano. Vengono selezionati all’ultimo momento, radunati in un punto della Striscia, portati in autobus fino al confine e poi a un aeroporto: da lì, voli verso il Sudafrica, l’Indonesia, la Malaysia.
Non è un corridoio umanitario qualunque.
Un’inchiesta di Haaretz ha ricostruito che Al Majd lavora in collegamento con un Ufficio per l’emigrazione volontaria creato dal ministero della difesa israeliano, coordinato con il COGAT, l’agenzia che gestisce le questioni civili nei Territori occupati, compresi gli aiuti. Non si tratta solo di “aiutare” chi vuole andare via: si tratta di organizzare e amministrare l’uscita dei palestinesi da Gaza, trasformando la disperazione in procedura, in burocrazia, in business.
Questo quadro diventa ancora più inquietante se lo leggiamo accanto ad altre informazioni che emergono nell’articolo:
– un documento interno del 2023 del ministero dell’intelligence israeliano che proponeva di trasferire gli oltre due milioni di abitanti di Gaza nel Sinai;
– i discorsi di Trump e Netanyahu sulla trasformazione di Gaza in una “costa azzurra” sotto controllo statunitense, con i palestinesi spostati in una generica “bella regione” lontano da casa.
Se teniamo insieme questi elementi, l’immagine cambia: non siamo di fronte a iniziative isolate, ma a un progetto coerente.
Un progetto che combina assedio, bombardamenti, impoverimento e, per chi sopravvive, la “via d’uscita” dell’emigrazione pagata, organizzata e gestita da chi controlla il territorio e i confini.
A questo punto può sorgere una domanda: cosa c’entra tutto questo con le “tregue”, i “cessate il fuoco”, gli “accordi” di cui sentiamo parlare ogni giorno?
Guardiamo cosa accade in parallelo.
Mentre si parla di intese e di diplomazia, Israele continua a colpire il Libano, violando l’accordo di cessate il fuoco del 2024: un bombardamento presentato come attacco a una “base di addestramento di Hezbollah” cade in realtà su un’area che le autorità libanesi descrivono come un campo da gioco.
Poi un altro attacco sul campo profughi di Ain al Hilweh, vicino a Sidone: quattordici persone uccise, una moschea colpita. Anche qui, la versione ufficiale parla di “centro di addestramento di Hamas”.
È sempre lo stesso copione:
– prima si bombarda;
– subito dopo si cambia il significato dei luoghi: un campo profughi diventa “base terroristica”, una moschea diventa “infrastruttura militare”, un quartiere diventa “obiettivo legittimo”.
𝙀 𝙘𝙤𝙨𝙞̀, 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙧𝙚 𝙨𝙞 𝙢𝙤𝙡𝙩𝙞𝙥𝙡𝙞𝙘𝙖𝙣𝙤 𝙡𝙚 𝙥𝙖𝙧𝙤𝙡𝙚 𝙨𝙪 𝙩𝙧𝙚𝙜𝙪𝙚 𝙚 𝙣𝙚𝙜𝙤𝙯𝙞𝙖𝙩𝙞, 𝙨𝙪𝙡 𝙩𝙚𝙧𝙧𝙚𝙣𝙤 𝙡𝙖 𝙡𝙤𝙜𝙞𝙘𝙖 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙜𝙪𝙚𝙧𝙧𝙖 𝙣𝙤𝙣 𝙨𝙞 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙧𝙤𝙢𝙥𝙚 𝙢𝙖𝙞: 𝙨𝙞 𝙨𝙥𝙤𝙨𝙩𝙖, 𝙨𝙞 𝙘𝙖𝙢𝙪𝙛𝙛𝙖, 𝙨𝙞 𝙧𝙞𝙡𝙚𝙜𝙜𝙚.
Ecco perché articoli di giornale che sembrano parlare “solo” di voli, ong, uffici governativi e burocrazia – in realtà ci aiutano a vedere una cosa precisa: la continuità tra bombardamenti, violazione sistematica delle tregue e progetti di “emigrazione volontaria”.
Non siamo di fronte a errori casuali o a eccessi isolati, ma a un disegno politico che ha un obiettivo costante: azzerare ogni resistenza alla politica colonialista e imperialista di Israele, riducendo la presenza palestinese a corpo estraneo da gestire, spostare, espellere.
Chi non viene ucciso o mutilato, deve essere reso profugo.
Chi resta, deve vivere sotto assedio permanente, sotto la minaccia continua della violenza, dentro confini controllati da un’unica potenza militare.
Chi scappa, paga. E spesso paga proprio a chi controlla il confine, l’aeroporto, la lista dei “selezionati”.
Paradossalmente, sono proprio i dettagli tecnici descritti nell’articolo – il valico, la base militare, i numeri di WhatsApp, gli intermediari fantasma, gli uffici israeliani coinvolti – che svelano la verità: non è “solo” una guerra, è un’operazione di ingegneria demografica e politica, condotta con le bombe e con i moduli, con i droni e con i charter.
E allora il punto è questo: nessun cessate il fuoco firmato da chi, il giorno prima, bombarda un campo profughi in Libano, e il giorno dopo coordina l’emigrazione di palestinesi da Gaza, cambierà davvero questa attitudine.
Una tregua può fermare il rumore delle armi per qualche settimana, ma non ferma un progetto che mira a svuotare la Palestina dei palestinesi e a spezzare ogni forma di resistenza, armata o civile, politica o culturale.
La vera frattura non è tra guerra e pace in astratto.
La frattura è tra:
• un potere coloniale che usa tregue, accordi, corridoi e deportazioni mascherate per proseguire lo stesso obiettivo: controllare la terra, espellere gli abitanti, spezzare la resistenza;
• e chi, dentro e fuori la regione, continua a rivendicare una pace che non sia la pace dei cimiteri e dei profughi, ma una pace fondata su giustizia, diritto al ritorno, fine dell’apartheid e della colonizzazione.
Comprendere questo è il primo passo per non farsi ingannare da parole come “tregua”, “cessate il fuoco”, “emigrazione volontaria”, quando vengono usate per coprire ciò che sono davvero: tappe diverse della stessa politica di espulsione e dominio.
Solo guardando questo disegno per intero possiamo decidere da che parte stare:
dalla parte di chi firma accordi che non cambiano nulla, o dalla parte di chi difende, ovunque, il diritto dei popoli a non essere bombardati, deportati, comprati e venduti come un problema da spostare altrove.
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