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16 novembre 2025
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No other land: non siamo attrezzati
di Rossella Ahmad

Vidi No Other Land lo scorso marzo, durante la breve programmazione del film a Napoli. Una saletta minuscola, di quelle destinate al cinema di nicchia, per pochi, da cui le masse rifuggono. Uscii dalla sala con la vista abbagliata ed il desiderio irrefrenabile di urlare. Ciò che accade quando sei sopraffatto dalla rabbia impotente, dalla disperazione senza rimedio.

Io, in quella terra condannata alla sofferenza ed al sopruso, ho parenti ed amici. Da tempo immemorabile conosco la realtà dei villaggi aggrediti dai coloni, dei documenti illegali di sgombero, dei bulldozer che ti tirano giù la casa e tu non puoi fare niente perché non hai una legge alla quale appellarti. Conosco la realtà degli uomini e delle donne messi in croce in una terra squassata dall'ingiustizia. Eppure, vederne le scene reali, vederle con i miei occhi, viverle con ogni stilla di sangue del mio essere, mi uccide ogni volta un po' di più.

Non siamo attrezzati per roba del genere. Dovendo subirla, stramazzeremmo dopo 48 ore e invece, vedi, i palestinesi resistono da eoni, continuando a cercare la bellezza in mezzo al sopruso, la grazia nell'ignavia, la solidarietà in un oceano di indifferenza. Sorridono, cercano e trovano cuori di riserva e continuano a credere, testardamente , nell'intima bontà dell'Uomo. A cui io non credo quasi più.

Di nuovo, rispetto alla prima volta che lo vidi, c'è l'assassinio di uno degli attivisti che contribuì alla realizzazione del docufilm, il giornalista Odeh Hadalin. Lo scorso luglio, un colono israeliano armato di rivoltella fece fuoco su un piccolo gruppo di attivisti di Umm al-Kheir, ferendo a morte Odeh. Prima che il cadavere dell'attivista fosse restituito ai familiari, l'assassino era già libero.

E di nuovo per me vi è la storia di Harun Abu Aram, il giovane reso paraplegico da un colpo sparatogli nel collo da un militare d'occupazione, mentre tentava di porre in salvo un generatore elettrico. Ad Harun furono negate persino le cure e fu costretto a vivere gli ultimi due anni della sua vita in una grotta buia, fatiscente, senza corrente elettrica né acqua corrente, assistito da una madre addolorata mentre gli venivano amputati gli arti, uno per volta.

Spero che il film appena trasmesso in TV sia stato molto visto e molto compreso. Spero che sia stato visto e compreso soprattutto dagli sciagurati che su queste pagine non molto tempo fa, biasimarono il sorriso di sfida di anziane palestinesi nei confronti di un bulletto di pochi anni. Se non hai ancora compreso le dinamiche del colonialismo, te le spiego io: il colonizzato è sempre minorenne, ha sempre meno anni del colonizzatore, perché i rapporti di forza sono completamente squilibrati a favore di quest'ultimo.

Dove tu vedevi il bambino io vedevo il mostro coloniale in tutta la sua protervia, impunità ed arroganza. E dove vedevi il sorriso di sarcasmo e sfida io vedevo l'estremo urlo represso del colonizzato che sogna la liberazione in ogni momento della sua vita. La quale è pura violenza in un mondo a scomparti, in cui la città del colono è un mondo inaccessibile, fatto di strade asfaltate, piedi coperti da scarpe robuste e secchi della spazzatura ricolmi di avanzi sconosciuti al ventre dei colonizzati. L'aria che questi respirano è tossica, la loro città è accovacciata, in ginocchio, a testa in giù.

E, soprattutto, riescono a superare il trauma immenso del colonialismo solo attraverso episodi di "catarsi". Lascio a voi non colonizzati, non abusati e non traumatizzati scegliere quale sia la catarsi che deve liberare l'oppresso.

Non mi interrogo invece sui perché ed i percome di una programmazione televisiva travagliata, fatta di rinvii e polemiche. Non mi interessano. A differenza di altri, non ho sarcasmi da distribuire né indifferenze da ostentare e neanche retropensieri da contrabbandare.

Per quel che mi riguarda, tutto ciò che serva alla comprensione di ciò che sta accadendo in Palestina merita di essere valorizzato. Fosse anche una goccia nell'oceano.

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