 |
Bavaglio come linea editoriale
di Raffaele Florio
Licenziare un giornalista per una domanda significa colpire il cuore stesso della democrazia. Non c’è perifrasi che tenga, non c’è spiegazione tecnica o “scelta editoriale” che possa attenuare la gravità di quanto accaduto a Gabriele Nunziati. La verità è semplice e brutale: è stato punito perché ha osato esercitare il mestiere di giornalista.
Il fatto: una domanda, legittima, pertinente, politicamente scomoda. Chiedere se, così come si chiede alla Russia di pagare la ricostruzione dell’Ucraina, anche Israele dovrà pagare la ricostruzione di Gaza non è un’eresia. È un interrogativo che chiunque, osservando la devastazione, potrebbe porre. È il ruolo della stampa: stanare ipocrisie, mettere allo scoperto doppi standard, obbligare chi governa a rispondere.
La risposta della Commissione è stata evasiva, diplomatica. Fin qui, normale dialettica istituzionale. Ma il licenziamento arrivato due settimane dopo è la parte oscura, torbida, intollerabile. Perché qui non siamo più nel campo dell’opinione, siamo nel terreno dello sgombero forzato della libertà di informazione. Qui c’è il messaggio implicito ma chiarissimo: ciò che puoi chiedere lo decidiamo noi.
Chiunque abbia masticato anche solo un frammento di storia sa dove porta questo meccanismo: al giornalismo ridotto a ufficio stampa del potere, alla stampa imbavagliata, al pensiero conforme come unica lingua possibile. È la mutilazione del diritto del cittadino ad essere informato. Perché senza domande scomode, senza giornalisti che disturbano il cerimoniale, senza la possibilità di toccare l’argomento che brucia, non esiste informazione. Esiste solo propaganda.
E allora, sì: la questione di Gabriele Nunziati non riguarda un singolo freelance sacrificabile. Riguarda tutti. Riguarda chi lavora nelle redazioni sotto ricatto. Riguarda chi ha una famiglia da mantenere e rinuncia a domande “rischiose” per paura di perdere la firma. Riguarda i lettori che credono ancora, con un’ingenuità che sfiora l’eroismo, che la stampa sia un luogo di libertà.
È per questo che chiedere il reintegro di Nunziati non è un gesto simbolico: è una linea del fronte. È dire che non accettiamo l’idea che si possa mutilare la libertà di stampa con un’email di congedo. È rifiutare l’obbedienza servile mascherata da “professionalità”. È ribadire che il giornalismo, se ha ancora un senso, è conflitto, critica, interrogazione, non compiacenza.
Reintegrare Gabriele Nunziati significa reintegrare il diritto di ciascuno di noi a non essere trattato come un suddito. Significa difendere l’ultimo spazio di libertà rimasto tra chi governa e chi subisce: la parola.
E chi prova fastidio per una domanda dovrebbe interrogarsi non su chi la formula, ma su ciò che rivela.
VAI A TUTTE LE NOTIZIE SU GAZA
 
Dossier
diritti
|
|