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Francesca Albanese e il coraggio della verità
di Soumaila Diawara
Francesca Albanese sta pagando il prezzo più alto che si possa immaginare in un mondo dove dire la verità è diventato un atto sovversivo.
È la prima funzionaria delle Nazioni Unite nella storia a subire sanzioni per aver difeso un popolo sotto occupazione. Nella stessa lista in cui compaiono figure come Putin e Khamenei, è stata inserita per un unico “crimine”: aver denunciato il genocidio in corso a Gaza.
Non perché abbia mentito, ma perché ha detto la verità che molti fingono di ignorare, perché ha osato pronunciare le parole proibite: apartheid, colonialismo, genocidio, e perché ha ricordato al mondo che il diritto internazionale non vale solo per i potenti.
La campagna di diffamazione che la colpisce non è un dibattito, ma un attacco coordinato e spietato contro una donna che ha osato documentare l’indicibile. I suoi detrattori, politici, opinionisti e media legati alla propaganda sionista, non rispondono con argomenti, ma con odio, intimidazioni, minacce di morte e di stupro, perfino contro sua figlia. È la logica di chi teme la luce, distruggere chi la accende.
Sulla questione del marito.
Tra le molte manipolazioni, una delle più meschine riguarda il marito di Francesca Albanese. Si cerca di far credere che il fatto che lui abbia lavorato per l’ONU in Palestina o collaborato con l’Autorità Palestinese rappresenti un “conflitto d’interessi”, ma si tratta di una menzogna costruita ad arte.
Come ha spiegato la stessa Albanese:
“Mio marito ha lavorato sei mesi per l’ONU in Palestina. L’ONU fa questo: se va in Congo, aiuta le autorità congolesi. Qual è il problema? Io stessa ho lavorato a stretto contatto con l’ANP.”
Chi la attacca ignora volutamente che l’ONU collabora con le autorità locali in ogni missione, l’obiettivo non è verificare la neutralità, ma trovare un pretesto per screditare una funzionaria che ha osato mettere in discussione l’impunità di Israele.
Il marito, economista, ha studiato gli effetti devastanti dell’occupazione israeliana sull’economia palestinese, ma invece di affrontare il contenuto delle sue analisi, dati, numeri e prove, i detrattori preferiscono criminalizzare la vicinanza umana e intellettuale a una causa giusta. È la classica strategia coloniale, colpire le persone per non discutere i fatti.
Accuse infondate e rovesciamento della realtà.
Si accusa Francesca Albanese di antisemitismo, parzialità e ostilità verso Israele, ma chi formula queste accuse difende da decenni un regime di apartheid, di occupazione militare e di pulizia etnica. Chi parla di “sicurezza” per Israele dimentica che nessun popolo può essere sicuro sulla negazione della libertà di un altro. Chiamare “difesa” la distruzione di ospedali, scuole, case e vite innocenti significa rovesciare il senso stesso dell’etica e del diritto.
Francesca Albanese non ha mai negato la violenza del 7 ottobre, ha semplicemente ricordato che non si può comprendere un fiume in piena senza osservare gli argini che lo costringono, citando Brecht:
“Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono.”
La verità che porta avanti è scomoda perché rompe la narrazione del potere, quella che trasforma le vittime in colpevoli e gli oppressori in difensori della civiltà, e proprio per questo il suo coraggio è politico, morale e umano.
Quando una relatrice delle Nazioni Unite viene sanzionata non perché ha mentito, ma perché ha detto la verità, quando una madre deve vivere sotto minaccia per difendere i diritti umani, quando la giustizia internazionale viene sospesa solo perché tocca Israele, allora il problema non è Francesca Albanese. Il problema è il silenzio di chi la guarda e non parla.
Solidarietà piena a Francesca Albanese.
La giustizia non si sanziona, la verità non si mette al bando, e chi tenta di soffocarla non sta difendendo Israele, sta condannando l’umanità intera.
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