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Mamdani sindaco e nuova geografia politica statunitense
di Leandro Leggeri
Molti critici di sinistra di Zohran Mamdani hanno ragione, almeno in senso astratto.
Il Partito Democratico rimane una delle colonne portanti del complesso militare-industriale, del potere finanziario e della classe dirigente che governa gli Stati Uniti da decenni.
Non è certo da lì che ci si può aspettare una rivoluzione sociale o un rovesciamento dei rapporti di potere globali.
Tuttavia, limitarsi a questo schema rischia di farci perdere di vista un punto politico cruciale.
La vittoria di Zohran Mamdani a New York non è un dettaglio né un semplice cambio di volto all’interno dell’establishment: è un segnale di frattura simbolica e culturale dentro il cuore dell’impero.
Mamdani non solo ha vinto, ha ottenuto circa il 32% del voto ebraico in una delle città con la più vasta e influente comunità ebraica del mondo, seconda solo a quella israeliana.
Questo dato, da solo, rovescia un mito radicato nella politica americana: gli elettori ebrei non sono un blocco monolitico.
Sempre più cittadini di fede o cultura ebraica rifiutano di vedere la propria identità utilizzata come giustificazione per l’occupazione, l’apartheid o il genocidio del popolo palestinese.
Scelgono invece rappresentanti che parlano di politiche materiali, giustizia sociale e valori condivisi, non dei dogmi imposti dalle lobby pro-israeliane di Washington.
Certo, non bisogna essere ingenui.
Le immagini che ritraggono Mamdani accanto a figure dell’alta finanza come Alex Soros o gli endorsement provenienti da alcuni ambienti di Wall Street sono segnali chiari: l’élite newyorchese sta cercando di “ingraziarsi” il nuovo sindaco.
E governare New York — non Bridgeport, Connecticut, importante ma piccola città industriale del New England segnata da decenni di deindustrializzazione e povertà urbana — significa muoversi dentro il cuore pulsante del capitalismo globale, tra le sedi centrali delle banche, delle multinazionali e dei fondi speculativi che determinano le politiche del mondo intero.
Chi siede a quel tavolo dovrà per forza di cose confrontarsi con compromessi, pressioni e limiti molto concreti.
Ma il dato politico, oggi, è un altro.
Per la prima volta, un socialista dichiarato, musulmano, figlio di immigrati africani e apertamente critico verso Israele, ha conquistato la guida della città simbolo del capitalismo mondiale.
Questo non significa che il sistema sia cambiato, ma che la narrazione dominante — quella che da decenni identifica il consenso americano con l’adesione cieca a Israele e al neoliberismo — sta iniziando a incrinarsi.
La vittoria di Mamdani non è la rivoluzione, ma una crepa nel muro dell’uniformità ideologica.
Una crepa che, se alimentata dal basso, dai movimenti e dalla solidarietà internazionale, potrebbe allargarsi fino a trasformarsi in una fessura reale nella macchina dell’impero.
E in tempi come questi, anche una crepa è un segnale di speranza.
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