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02 novembre 2025
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Una repubblica fondata sul lavoro (sfruttato)
di Raffaele Florio

Lavorare per morire (a 150 euro al mese).

È successo a Caorle, ma poteva accadere ovunque in questo Paese che si riempie la bocca di “merito”, “patria” e “lavoro”, mentre il lavoro vero lo riduce a schiavitù. Un ragazzo di 25 anni, marocchino, senza permesso di soggiorno, dipingeva muri per 150 euro al mese. Non è un refuso: centocinquanta euro. Cinque euro al giorno, meno di quanto molti spendono per un caffè e una brioche.

Quando ha avuto un malore in cantiere, è crollato sotto il peso di una verità che non sta nei bilanci né nei proclami: si può morire di fatica, anche senza cadere da un’impalcatura. E allora, come in ogni farsa all’italiana, l’imprenditore si è affrettato a metterlo “in regola”. Ma non prima, no — mezz’ora prima dell’arrivo dei carabinieri. Mezz’ora. Il tempo di cliccare su un modulo online, firmare un contratto finto e presentarlo come prova di legalità.

Un colpo di teatro miserabile, degno della peggior commedia all’italiana: il lavoratore sfinito portato via in ambulanza e l’imprenditore che nel frattempo sistema i documenti, come se bastasse una firma retrodatata a cancellare un anno di sfruttamento. Un letto in cascina, nessuna sicurezza, nessuna formazione, nessuna dignità. Solo la promessa, sempre la stessa: “Ti metto in regola, appena arriva il permesso di soggiorno”.

Poi arriva il giudice, e anche qui il sipario cala dolcemente. Patteggiamento: un anno e due mesi. Tradotto: niente carcere, niente galera, niente. Cinquantamila euro di multa, che probabilmente si recuperano in due mesi con un altro paio di disperati da 150 euro al mese.

E così il cerchio si chiude, perfettamente. Il giovane marocchino tornerà invisibile, il datore di lavoro tornerà a sorridere nei bar, e l’Italia potrà tornare a indignarsi per qualche ora su Facebook, magari postando una bandierina e scrivendo “onestà, lavoro, patria”.

Il dramma è che non c’è nulla di eccezionale in questa storia. È il sistema che abbiamo costruito, pezzo dopo pezzo, tra leggi di comodo, sanatorie a metà e controlli che arrivano sempre dopo. Perché in Italia il lavoro nero è come la corruzione: lo scopriamo sempre quando è troppo tardi, e ce la caviamo sempre con una pacca sulla spalla e un “non lo farò più”.

Un ragazzo di 25 anni è svenuto per la fatica, non per il caldo. È svenuto perché qualcuno lo considerava meno di una macchina: utile finché regge, da buttare quando cede.

E mentre i politici si accapigliano sui bonus edilizi, sui “porti chiusi” e sui “confini da difendere”, c’è chi muore di fame lavorando nei nostri cantieri, nelle nostre case, nelle nostre città. È questa la vera frontiera violata: quella della dignità.

150 euro al mese. L’Italia, Repubblica Democratica fondata sul lavoro, è finita qui. Tutto il resto è maquillage.


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