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01 novembre 2025
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L’ignoranza ai tempi della PEC
di Raffaele Florio

Da qualche giorno, sotto ogni post sul caso Corte dei Conti e Ponte sullo Stretto, si è scatenata la sagra del commento “digitale”. Centinaia di giuristi da tastiera che ripetono a memoria lo stesso mantra: “Ma la Pubblica Amministrazione è digitalizzata! C’è la PEC! Ci sono i file p7m! I link sono trasparenti!” Un tripudio di tecnicismi di cui non capiscono nemmeno la metà, ma che li fa sentire informatici, giuristi e costituzionalisti insieme. Facciamo chiarezza.

La Corte dei Conti non è un help desk del Ministero dell’Innovazione, ma un organo costituzionale che ha il compito di controllare la legittimità della spesa pubblica. Non è lì per scaricare file o cliccare link, ma per verificare atti e delibere formalmente depositati e protocollati.

Una cosa è la digitalizzazione dei procedimenti — che nessuno contesta — altra è la trasmissione illegittima o incompleta di documenti fondamentali. Se un’amministrazione invia un link senza garanzie di autenticità, conservazione e protocollazione, la Corte non può accettarlo come atto ufficiale. Punto. Chi pensa che basti un “file firmato digitalmente” per rendere tutto legale dimostra di non avere la minima idea di cosa sia un controllo di legittimità contabile.

La Corte non “scarica” pratiche: le riceve, le registra, le verifica, e solo allora le approva. E se non le riceve in modo conforme, non le può nemmeno esaminare. Non è “burocrazia medievale”: è garanzia di legalità.

Perché la differenza tra uno Stato serio e un condominio gestito su WhatsApp sta proprio lì. E a chi tira fuori il solito disco rotto — “ma dove era la Corte dei Conti con le mascherine, il bonus 110% e i banchi a rotelle?” — va ricordato che era esattamente lì dove si trova oggi: a dire le stesse cose.

La Corte, allora come adesso, aveva segnalato criticità, sprechi e procedure opache. Se la politica di turno, di destra o di sinistra, ha ignorato le sue osservazioni, la colpa non è della Corte, ma della politica.

Il controllore non sostituisce il controllato: segnala, ammonisce, scrive nero su bianco. Se poi chi governa fa finta di nulla, la responsabilità non è dei magistrati contabili ma di chi occupa Palazzo Chigi.

Poi, certo, i soliti geni gridano al complotto: “È una manovra contro il governo! Retrogradi e ostruzionisti!”. Già, come se i magistrati contabili si alzassero la mattina con l’obiettivo di bloccare i sogni infrastrutturali del premier.

La realtà è un’altra, molto più semplice e molto più scomoda: se il governo sbaglia le procedure, la Corte ha il dovere di fermarlo. Non per odio politico, ma per rispetto della legge.

E chi confonde il controllo con il sabotaggio, la legalità con la fedeltà, dovrebbe tornare a studiare educazione civica.

Perché la verità, cari “esperti della PEC”, è che non esiste progresso senza regole. E un governo che non rispetta le regole non è moderno, è pericoloso.

La digitalizzazione non sostituisce la Costituzione, né il senso dello Stato.

E finché avremo una Corte dei Conti che osa ancora dire “no” quando serve, questo Paese sarà forse lento, ma almeno ancora libero.


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