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14 ottobre 2025
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100 anni di Don Minzoni, 100 anni di fascismo
di Rinaldo Battaglia *

Argenta, sabato 13 ottobre 1973: nel Duomo di San Nicolò viene posto e celebrato un monumento in bronzo, opera di Angelo Biancini, dedicato a Don Giovanni Minzoni. Si onora e si ricorda il 50° anniversario della sua uccisione, la sera del 23 agosto 1923.

È un qualcosa di fuori dal comune: ad inaugurarlo, quasi di sorpresa e senza tanta pubblicità, arriva il Capo dello Stato, Giovanni Leone. Forse il Presidente della Repubblica più debole che abbiamo mai avuto, tanto che sarà l’unico costretto (il 15 giugno 1978) a dimettersi per motivi non legati alla salute o all’età.

Ma quel giorno, il Presidente Leone fece un discorso forte sulla figura antifascista di don Minzoni e sui danni e responsabilità del fascismo, sin dalla sua nascita nel 1919. E che a farlo fosse stato un Presidente debole e peraltro eletto solo due anni prima (24 dicembre 1971) coi voti decisivi del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante fece scalpore e dette ancora maggior valore a quelle parole.

Perché le accuse del Presidente sulle violenze nei precedenti 50 anni, da quel tragico 23 agosto 1923 a quel giorno dell’ottobre 1973, furono chiare, dirette, senza ambiguità. Non dirà come il suo successore Sandro Pertini che ‘il fascismo non è un’idea, ma la morte di tutte le idee’. Ma il peso ed il senso del suo discorso furono su quel tenore e mirati a ricordarci cos’era stato il fascismo e cos’erano ancora, in quel momento, i figli di quel fascismo.

(..)

Ma chi era stato, per davvero, Don Giovanni Minzoni perché fosse così ancora attuale 50 anni dopo?

Dovete pensare che, nel 1916, a 30 anni Don Minzoni - già fortemente inserito nella vita del suo tempo e su posizioni cristiano-sociali che saranno proprie dal partito popolare di Don Sturzo - venne chiamato alla guerra, prestando servizio prima nell’ospedale militare di Ancona e subito dopo sul fronte del Piave, come tenente cappellano del 255º reggimento fanteria della brigata Veneto. Qui durante ‘la battaglia del solstizio’ per il suo impegno, coraggio e generosità venne decorato sul campo con la medaglia d'argento al valore militare.

Fu qui che rafforzò il legame con gli ultimi, i più deboli, i più sfruttati. Tornato a guerra finita nella sua parrocchia di Argenta, si interessò apertamente alle istanze dei lavoratori, coagulati attorno alle Camere del Lavoro e fortemente osteggiati dai fascisti della zona, finanziati e spalleggiati dai ricchi e potenti imprenditori del ferrarese. Qui tutto girava attorno al grande squadrista, pezzo forte del regime e astro nascente del fascismo di governo: il ras e poi quadrumviro Italo Balbo.

Inevitabili i contrasti e per don Minzoni le violenze e le minacce. Soprattutto man mano che promoveva la costituzione di nuove cooperative di ispirazione cattolica (in particolare tra i braccianti e le operaie dei numerosi laboratori di maglieria) o l’apertura del doposcuola, del teatro parrocchiale, della biblioteca circolante o dei circoli maschili e femminili.

Peggio ancora quando, grazie all’aiuto di don Emilio Faggioli (fondatore nell'aprile del 1917 del gruppo scout «Bologna I», e poi assistente ecclesiastico regionale dell'ASCI) Don Minzoni si convinse della validità dello scautismo, fondando un gruppo scout nella sua parrocchia di San Nicolò. Per i fascisti, saliti al potere con la marcia su Roma, e per il quadrumviro Italo Balbo suonò come un’offesa: si faceva concorrenza ‘alla formazione e all’educazione fascista’ dei ragazzi, la futura classe da macello, da modellare e poi usare per le guerre del Duce.

I primi segnali forti e personali a Don Minzoni erano però arrivati ancora prima. Già il 7 maggio 1921 lo squadrismo fascista aveva ucciso il sindacalista socialista Natale Gaiba, consigliere comunale ad Argenta e suo personale grande amico. E in chiesa nell’omelia don Minzoni accusò apertamente e senza mezzi termini i capi fascisti di «viltà» e «barbarie». E tutti intesero in prima persona il ‘ras’ Italo Balbo e le sue bande armate, le cosiddette camicie nere, che erano di fatto sue milizie personali.

Sei mesi ancora prima, il 20 dicembre 1920, si erano registrati 6 morti nel corso dell'eccidio fascista del Castello Estense. Ma don Minzoni non si fece intimorire, anzi per dare un forte segnale al ‘suo gregge’ – quello dei lavoratori, degli sfruttati, degli ultimi – nell’aprile del 1923 ufficializzò la sua adesione al Partito Popolare Italiano. Assumendo così il ruolo di locale leader oppositore al regime e vero punto di riferimento degli antifascisti di Argenta e del ferrarese, ‘territorio di caccia e di competenza’ sempre del solito Italo Balbo.

Non solo. Il 27 luglio del 1922 Balbo guidò personalmente le sue camicie nere all’occupazione di Ravenna, ove i contadini e gli operai erano in fermento. Nell’azione i fascisti ebbero nove morti e per rappresaglia, lo stesso Italo Balbo dette l’ordine di bruciare l’Hotel Byron, sede delle cooperative socialiste. Non soddisfatto, guidò una colonna di autocarri, che Mussolini chiamò «colonna di fuoco» e che incendiò e distrusse case di antifascisti nel forlivese e anche nel ravennate, non lontano da Argenta.

Il mese dopo, ad agosto, sempre i fascisti di Balbo in massa – si parla di dieci mila uomini - tentarono l’occupazione di Parma. Gli scontri furono violentissimi: morirono 4 persone a Sala Baganza, 2 fascisti e 2 civili, e 5 persone a Parma, tutti antifascisti del quartiere Oltretorrente, tra cui un consigliere comunale del Partito Popolare Italiano, legato al ‘parroco degli ultimi’ di Argenta.

Ma la condanna a morte per don Minzoni arrivò, di fatto, la sera dell’8 luglio 1923 quando don Emilio Faggioli venne invitato nel teatro parrocchiale di Argenta a tenere una conferenza sulla validità educativa dello scautismo. E le sue parole, condivise ovviamente con don Minzoni, furono considerate da Balbo troppo pericolose, anche per il suo prestigio di quadrumviro: "Attraverso questo tirocinio e disciplina della volontà e del corpo, noi intendiamo formare degli uomini di carattere". Il segretario del fascio di Argenta, stretto collaboratore di Balbo, bloccò il discorso dicendo: "C'è già Mussolini!”.

Ma don Emilio non si volle fermare, spiegando ai presenti che lo scautismo ‘agiva sopra e al di fuori delle fazioni politiche’. "Vedrete da oggi lungo le vostre strade i giovani esploratori col largo cappello e il giglio sopra il cuore. Guardate con simpatia questi ragazzi che percorreranno cantando la larga piazza d'Argenta."

"In piazza non verranno!" esclamò con arroganza ancora il segretario del fascio. Gli rispose allora don Minzoni con tutta la sua autorevolezza e la forza del suo carisma: "Finché c'è don Giovanni, verranno anche in piazza!". Partì subito e per prima dai giovani un forte, scrosciante applauso. Erano quasi un centinaio già i ragazzi iscritti al gruppo degli esploratori cattolici di S. Nicolò di Argenta. Troppi per i fascisti di Balbo. Avrebbero seminato, messo radici e generato nuovi oppositori.

Finchè c’era Don Giovanni Minzoni, vero? Un’offesa per Balbo, una minaccia per il Duce, una sconfitta anche per il console della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (le camicie nere), Raul Forti, originario di Argenta, che aveva tentato per mesi di portare don Minzoni nel proprio campo, facendo leva sui suoi trascorsi militari. Gli aveva persino proposto di diventare cappellano militare della MVSN. Mossa classica del fascismo di Mussolini: se posso di compero, se non ti vendi ti uccido.

E saranno molti gli uccisi criminalmente dal fascismo di Mussolini: Carlo Berruti (il sindacalista dei ferrovieri il 18 dicembre 1922), Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), Giovanni Amendola (7 aprile 1926 dopo le violenze fisiche del 19 luglio 1925), Piero Gobetti (il 15 febbraio 1926 a seguito delle plurime percosse e bastonate subite), Carlo e Nello Rosselli (9 giugno 1937), Antonio Gramsci (il 27 aprile 1937 incarcerato già nel 1926). E altri minori, per modo di dire ovviamente, perché nessuna vita è per nessuno ‘minore’.

Il conto a Don Giovanni Minzoni sarà presentato la sera del 23 agosto di 100 anni fa. Stava rientrando in canonica assieme ad un giovane di Argenta, Enrico Bondanelli, quando due squadristi, originari della vicina di Casumaro, Giorgio Molinari e Vittore Casoni - facenti capo ovviamente a Italo Balbo – lo colpirono con sassi e bastoni con una violenza così criminale da provocargli la frattura delle ossa del cranio. Lo colpirono a tradimento e alle spalle: tipico dei fascisti, perché per affrontare gli avversari per davanti ed in faccia ci vuole dignità, termine mancante nel vocabolario degli uomini del Duce. Stesso copione di Matteotti, Gobetti, i fratelli Rosselli. È un loro marchio di fabbrica, da sempre.

Il giovane Enrico, percosso a sua volta e ferito – tanto uno più, uno meno che voleva dire? – non riuscì ad intervenire. Don Minzoni in un primo momento cercò di alzarsi in piedi - simbolo di dignità – ma il dolore lo costrinse subito a cadere sulle ginocchia – simbolo di umiltà - quasi come stesse pregando. Venne portato in canonica nel suo letto ma verso mezzanotte, assistito dai parrocchiani giunti in massa malgrado l’orario, morì. Si scoprirà giorni dopo che se lo aspettava, ma ugualmente quella era la sua ‘mission’: non fermarsi di fronte alla violenza del prepotente di turno, per quanto violento e prepotente fosse, nell’interesse dei più deboli, sfruttati, derubati nel nome del Vangelo.

Una sua ultima nota, scritta forse quel giorno o poco prima, lo confermava: «a cuore aperto, con la preghiera che mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo».

Ad Argenta ed in tutto il ferrarese l’assassinio del ‘parroco degli ultimi’ fece subito notizia e clamore, ma intervenne subito il ‘ras’ Balbo che fece bloccare ogni voce ed archiviare le ricerche sui responsabili dell'omicidio.

Solo 8/9 mesi dopo, nel 1924, quando si aggiunsero in zona anche le proteste e rivendicazioni per il delitto Matteotti, l’Italia si ricordò anche di Don Minzoni e persino e finalmente due giornali nazionali – eravamo ancora prima delle leggi fascistissime del ’25 – quali ‘Il Popolo’ e ‘La Voce Repubblicana ‘ fecero chiaramente il nome di Italo Balbo quale ‘presunto mandante’ (presunto per modo di dire ovviamente).

Questo innestò anche una guerra interna al partito fascista e sebbene Italo Balbo nel 1924 fosse diventato Console della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), ossia delle camicie nere – ruolo di massimo livello – fu costretto a dimettersi da questa importante carica, e malgrado le inevitabili pressioni sulla magistratura perse anche la causa per diffamazione da lui intentata a ‘La Voce Repubblicana’ e condannato a pagare le spese processuali. Eravamo agli arbori della dittatura: pochi mesi dopo cambierà - in peggio - anche questo.

Lo si capirà bene il 1° agosto 1925 quando tutte le inchieste sui due assassini e sul mandante saranno vanificate dall’assoluzione totale e all'unanimità dai dodici giudici popolari, di fatto scelti dal regime. Saranno necessari oltre 20 anni, la morte di Italo Balbo (il 28 giugno del 1940, precipitando in Libia con il suo aereo colpito dalla contraerea della nave italiana San Giorgio, che l’aveva scambiato per un mezzo inglese) e del Duce, la caduta del fascismo e il ritorno alla democrazia, affinché nel 1946 la Corte di Cassazione annullasse quel processo e ne facesse, di fatto, istruire uno nuovo (nel 1947) presso la Corte di Assise di Ferrara.

Qui i fascisti di Balbo, Giorgio Molinari e Vittore Casoni, vennero condannati per omicidio preterintenzionale, ma subito scarcerati per le amnistie del 1946. Del resto, se si erano amnistiati personaggi del regime del calibro di Junio Valerio Borghese, Giorgio Almirante e altri ancora in vita, perché non purificare anche gli assassini di Don Minzoni? Fascisti marginali, ‘peones’ del regime.

Poi l’oblio. Si pensi che a 40 anni dalla morte ad Argenta, nel 1964, venne deposta una lapide ‘al sacerdote esemplare e l’uomo libero che osteggiava i metodi e il costume di quel periodo della storia d’Italia’. Neanche dopo 40 anni, neanche dopo 20 anni dalla fine – almeno così si dice – del fascismo in italia si aveva il coraggio e la dignità di scrivere che era stato ammazzato dagli uomini del Duce. Un po’ come oggi, dove il Premier Meloni a Roma il 13 dicembre 2022 parlò delle ‘infami leggi razziali’ senza mai, mai fare il nome di Benito Mussolini. E da quelle leggi razziali sono passati 85 anni. Aveva avuto più dignità e forza il debole Presidente Leone, il 13 ottobre 1973, nel suo discorso nel Duomo di Argenta.

(...) Argenta, mercoledì 23 agosto 2023: nel Duomo di San Nicolò si onora e si ricorda il 100° anniversario della sua uccisione. Ed è ancora un qualcosa di fuori dal comune. A presiedere la Messa è il cardinale di Bologna Matteo Maria Zuppi, oltrechè Presidente della CEI. A concelebrarla, l’arcivescovo di Ravenna-Cervia, monsignor Lorenzo Ghizzoni e alcuni vescovi e arcivescovi della regione: Giancarlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Livio Corazza, vescovo di Forlì-Bertinoro e Andrea Turazzi, vescovo di San Marino-Montefeltro. Tra le autorità sono presenti anche le massime autorità civili e militari di Comuni e delle Province di Ravenna e Ferrara e rappresentanti dello scoutismo (Masci, Agesci e Scout d’Europa) a livello nazionale. Non solo: al termine della Messa il cardinal Zuppi depone una corona di fiori sul luogo dove è stato ucciso don Minzoni.

E quel giorno, il Cardinale Zuppi, di certo figura non debole, fa un discorso altrettanto forte sulla figura antifascista di don Minzoni e sui danni e responsabilità del fascismo, sin da quel 23 agosto 2023 e fino a oggi e forse anche per il domani. “Il fascismo è disprezzo di ciò che è diverso. Don Minzoni è stato ucciso dalla violenza fascista e dalle complicità pavide di chi non la contrastò. Fascismo significa il disprezzo dell’altro e del diverso”.

Parole ben diverse da quelle scritte nel marmo il 23 agosto 1964: ‘al sacerdote esemplare e l’uomo libero che osteggiava i metodi e il costume di quel periodo della storia d’Italia’.

E che a dirlo sia un uomo della Chiesa e non un uomo dello Stato fa onore alla Chiesa di adesso e parimenti mortifica lo Stato attuale. Il Presidente Meloni – quella segretaria del partito nella cui sede di Civitavecchia (22 luglio 2022) si espongono al muro foto di Junio Valerio Borghese e che nella cui campagna elettorale del 25 settembre 2022 sventolava dépliant con scritto ‘da Giorgio a Giorgia’ (e Giorgio era Almirante il megafono fascista di Mussolini) – lo avrebbe mai detto? Io ricordo (sul web sono facili, volendo, trovarle) parole diverse del tipo: ‘Mussolini è stato il più grande statista italiano del secolo scorso’. Quando riuscirà a pronunciare “Fascismo significa il disprezzo dell’altro e del diverso”? o più semplicemente che Mussolini, il capo del fascismo, è stato un criminale che ha portato alla catastrofe l’Italia durante il suo regime dittatoriale? quando?

13 ottobre 2025 – 102 anni dopo l’assassinio di Don Giovanni Minzoni e 52 anni dal discorso del Presidente Leone - Liberamente tratto dal mio ‘Il tempo che torna indietro – Terza Parte” - Amazon – 2025

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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