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29 luglio 2025
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La scarpetta insanguinata
di Rinaldo Battaglia *

In questi giorni di fine luglio del 1937 sulla collina dell’Ettersberg, a pochi chilometri da Weimar, nella regione della Turingia, il regime di Hitler rese operativo il lager di Buchenwald.

Quando l'11 aprile 1945 le truppe della US 89th Infantry Division del generale George Smith Patton lo liberarono, tra i pochi sopravvissuti, vi trovarono anche 904 bambini o poco più di bambini. E fu un’eccezione perché in base ai comandamenti del nazismo quelle erano ‘vite inutili da vivere’ in quanto solo un costo e senza alcuna redditività per il Terzo Reich, per la razza superiore.

Quasi tutti quei bambini (anche bambini fra i 6 e i 12 anni e persino due di solo 4 anni) si trovavano nel blocco 66, nel blocco 8 e alcune decine nel blocco 49. Documenti provano che quei block erano nelle zone 'off limits', poco frequentate anche dalle stesse guardie naziste perché si diceva che fossero infestate dal tifo. Molti sopravvissuti hanno sostenuto che quella ‘diceria’ – falsa in gran parte, ma fortemente utile – era stata ingigantita volutamente da alcuni prigionieri russi, che in tal modo riuscirono a far sì che quei bambini non venissero trasferiti in altri lager, magari Auschwitz e destinati subito alle camere a gas.

Se a Buchenwald e nei sotto-lager strettamente collegati vi morirono, tra chissà quali sofferenze, oltre 56 mila innocenti e non di più lo si deve anche a quel piccolo inganno.

Si documenta che, dopo la liberazione del lager due cappellani militari USA (Rabbi Herschel Schacter e Rabbi Robert Marcus) cercarono subito di intervenire e contattarono gli uffici della OSE di Ginevra (l’organizzazione di soccorso dei bambini ebrei nei lager). E così 427 di quei bambini (la maggior parte dei quali erano rimasti orfani) furono accolti in Francia, 280 in Svizzera e 250 in Inghilterra.

Ma per molti soldati USA quanto visto in quell’11 aprile fu sconvolgente e per molti di loro mai più dimenticabile.

Si racconta, ad esempio, di una foto di un giovane soldato che trovò quel giorno nella zona verso il crematorio una scarpetta di un piccolo bambino, sporca di sangue. Ancora quasi fresco. Recente. Quel militare si inginocchiò per raccoglierla e rimase così con quella scarpetta in mano, immobile, fermo. Divenne una statua di marmo. Solo dopo, i suoi commilitoni lo videro piangere senza freni, senza limiti, senza pause. Anche quelle sue mani incominciarono, poi, a tremare ma, come le lacrime, non riuscivano più a bloccarsi.

A casa aveva lasciato suo figlio, di quell’età e quella scarpetta era probabilmente della stessa misura del suo cucciolo. Mesi dopo, quel soldato ritornò a casa e rivide il suo bambino. Ma non parlò mai con nessuno della guerra, di Buchenwald, di quella scarpetta insanguinata.

Solo dopo la sua morte, quel figlio ora diventato uomo e anch’egli padre, un giorno sistemando le cose personali del padre defunto, trovò nascosta in un cassetto dell’armadio quella scarpetta. Non l’aveva mai abbandonata ed era diventata – così direbbe Primo Levi – 'il segnalibro' della sua esistenza.

Anni dopo il nipote, figlio di quel figlio, lo spiegherà meglio: "Non ha mai parlato della guerra. Ma quella scarpa... quello era il suo silenzio.” Il suo silenzio, la sua eredità, il suo testamento ai figli, la sua lezione al mondo.

29 luglio 2025 – 88 anni dopo

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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