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Progresso tecnico militare precede quello civile per logica di dominio
di Giuseppe Franco Arguto
𝙄𝙡 𝙥𝙧𝙤𝙜𝙧𝙚𝙨𝙨𝙤 𝙩𝙚𝙘𝙣𝙤𝙡𝙤𝙜𝙞𝙘𝙤 𝙞𝙣 𝙘𝙖𝙢𝙥𝙤 𝙢𝙞𝙡𝙞𝙩𝙖𝙧𝙚 𝙥𝙧𝙚𝙘𝙚𝙙𝙚 𝙡’𝙪𝙨𝙤 𝙘𝙞𝙫𝙞𝙡𝙚 𝙥𝙚𝙧𝙘𝙝𝙚́ 𝙚̀ 𝙜𝙞𝙖̀ 𝙞𝙣𝙨𝙘𝙧𝙞𝙩𝙩𝙤 𝙞𝙣 𝙪𝙣 𝙥𝙖𝙧𝙖𝙙𝙞𝙜𝙢𝙖 𝙙𝙞 𝙙𝙤𝙢𝙞𝙣𝙞𝙤.
𝘈𝘭𝘭𝘢 𝘊𝘢𝘴𝘢 𝘉𝘪𝘢𝘯𝘤𝘢 𝘪𝘭 𝘥𝘪𝘢𝘭𝘰𝘨𝘰 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘤𝘶𝘭𝘵𝘶𝘳𝘢𝘭𝘦, 𝘱𝘦𝘳 𝘭𝘢 𝘥𝘦𝘧𝘪𝘯𝘪𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘪 𝘱𝘢𝘵𝘵𝘪 𝘥𝘪 𝘧𝘶𝘴𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘤𝘶𝘭𝘵𝘶𝘳𝘢𝘭𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘶𝘯 𝘪𝘯𝘤𝘳𝘦𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘴𝘪𝘨𝘯𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘵𝘪𝘷𝘰 𝘥𝘦𝘪 𝘥𝘪𝘳𝘪𝘵𝘵𝘪 𝘶𝘮𝘢𝘯𝘪, 𝘳𝘪𝘤𝘰𝘯𝘰𝘴𝘤𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘭𝘦 𝘳𝘢𝘥𝘪𝘤𝘪 𝘢𝘯𝘵𝘳𝘰𝘱𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘦𝘪 𝘤𝘰𝘯𝘧𝘭𝘪𝘵𝘵𝘪, 𝘯𝘰𝘯 𝘦̀ 𝘮𝘢𝘪 𝘴𝘵𝘢𝘵𝘰 𝘯𝘦𝘭𝘭'𝘢𝘨𝘦𝘯𝘥𝘢 𝘥𝘪 𝘨𝘰𝘷𝘦𝘳𝘯𝘰.
La maggior parte delle innovazioni tecnico-scientifiche degli ultimi due secoli nasce nei laboratori militari finanziati dal governo US (dalla bomba atomica ad ARPANET, da cui origina poi Internet). Questa genealogia bellica della tecnologia ha consentito alla 'democrazia' statunitense la supremazia geopolitica fondata sul vantaggio tecnico-militare, stabilendo un sodalizio e una costante cooperazione fra il complesso militare e l'industria civile, radicando nel tessuto connettivo della società americana la logica della violenza a partire da un'economia di guerra sempre florida.
Con il graduale impiego della robotica e dell'ingegneria più avanzata, gli US hanno trasformato ogni approccio, ogni strategia e tattica, passando dalla "guerra di massa” novecentesca alla guerra remota e invisibile dei droni, dei satelliti-spia e delle bombe intelligenti: la violenza viene decentrata, mediatizzata, sottratta al dibattito pubblico; in buona sostanza, con il massiccio e preminente ricorso ai dispositivi e agli strumenti della forza aerea, il Pentagono tiene a bada i movimenti pacifisti e quell'opinione pubblica che si sono sempre mostrati fermamente contrari al sacrificio di centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze americani sui diversi fronti delle guerre imperialiste.
Ne consegue una "deresponsabilizzazione' dell'opinione pubblica: droni e bombe aeree consentono di uccidere senza rischiare la vita di interi reggimenti, spingendo verso quella “guerra asettica” denunciata da Paul Virilio ("La macchina che vede", Sugarco ed., 1989): l’etica del combattimento è sostituita dalla managerialità dell’hardware.
Quando gli US investono le risorse umane nel dialogo con le forze ritenute terroriste e criminali, stanno solo ponendo le basi a premessa per legittimare un successivo intervento militare su larga scala, imputando ai nemici la responsabilità del conflitto, per non aver accettato le condizioni per una pace, ovviamente scritte secondo la prospettiva americana. Questa condotta è un classico nello scacchiere delle manovre militari, fino ai giorni nostri.
Trump non è nuovo nell'ordinare di colpire la sensibilità degli oligarchi iraniani, imponendo i suoi dettami per ripristinare le condizioni di governabilità fuori dai confini statunitensi: durante il suo primo mandato da presidente (gennaio 2020) diede ordine al suo stato maggiore aereo di uccidere con un drone il generale iraniano Qassem Soleimani, comandante delle Guardie della Rivoluzione.
Insomma, supporre che tutta la colpa di questo ennesimo conflitto sia causata dalla pretesa iraniana di dotarsi di un'arma atomica - sempre che sia accertato - è a dir poco stupido, soprattutto se si tiene in conto quante armi nucleari detengono gli US in giro per il mondo, dove sono riusciti, in un modo o nell'altro, a installare le loro basi militari e i propri comandi strategici interforze, sotto l'egida della NATO.
La Tecnica in questo scenario non è più una “cassetta degli attrezzi” neutra, ma intesa come proiezione ed estensione di un volere-potere supremo, legittimato dal consueto criterio che il livello di civiltà occidentale è di gran lunga migliore di quello delle altre società non occidentali.
La sinergia fra Stato-nazione e industria bellica incarna ciò che Thomas Hobbes, in "Leviathan, cap. XVII" evocava come “potere mortale” e che oggi coincide con il military-industrial complex: un soggetto collettivo che plasma bisogni, mercati e immaginario.
Quando dalla stanza ovale a Washington insistono per «esportare la Cultura dei Diritti Umani» di cui l'America del Nord si è posta a paladina internazionale, ci troviamo dinanzi una duplice ipotesi di azione: può essere antidoto alla logica dei missili, ma anche una nuova forma geopolitica che presume la capacità americana di ottenere i risultati desiderati non con la coercizione o con l’incentivo economico puro, bensì con l’attrazione e la persuasione. Questo stile tutto yankee presuppone la superiorità occidentale, ricadendo nel colonialismo morale. Se non accetti, ti colpiamo.
Le ragioni di ogni conflitto sono molteplici, ma costanti in ogni scenario sono le cause “antropologiche”, cioè radicate in sistemi di valori incomparabili tra due o più civiltà e società. Riecheggia la sfida implicita nella filosofia etica di Emmanuel Levinas, come accogliere l’alterità senza assimilarla né demonizzarla? Ossia la necessità di incontrare l’Altro senza ridurlo a prolungamento del Medesimo, né trasformarlo in nemico.
La centralità della diplomazia culturale ci indica che la pace non è solo assenza di bombe, ma costruzione di immaginari condivisi, mentre la filiera della guerra rimane sempre una voce persistente e importante del business globale; senza toccare le rendite del settore difesa, la conversione pacifista resta un auspicio.
La diplomazia non può essere solo questione di porre a confronto singoli interessi geopolitici ed economici, ma richiede una impostazione culturale 'aperta', per rivedere il rapporto fra potere, tecnica e umanità, sostituendo la logica della supremazia con una logica di co-abitazione planetaria. Un primo passo significativo in direzione della pace è depotenziare la ricerca militare, destinando conoscenze e saperi, soprattutto i fondi, dal settore militare a quelli civili (sanità, clima, energia).
La postura dei grandi attori sul piano internazionale dovrebbe essere orientata a decolonizzare i diritti umani, proponendoli come linguaggio di negoziazione reciproca, non come vessillo d’imperio.
Un discorso progettuale serio che integri la pace nei rapporti di forza tra superpotenze, è solo nel capovolgere l’orientamento etico della potenza tecnica: dal dominio dell’altro alla cura delle relazioni interculturali, patrimonio dell'Umanità.
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