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16 giugno 2025
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I musicisti del Titanic
di Alessandro Negrini

C’è un’immagine che mi ossessiona: i musicisti del Titanic che, su ordine dei proprietari del transatlantico, continuano a suonare mentre la nave sta per affondare, sino a pochissimi minuti prima della catastrofe.

L'arte che non sfida più la realtà, che non salva dalla tragedia, ma accompagna il disastro come una colonna sonora dolce e inoffensiva. Un tragico atto di resa estetica.

Oggi siamo su quel Titanic. E in tanti, troppi, continuano a suonare.

Da anni insisto su una cosa: gli artisti e gli intellettuali hanno una responsabilità ulteriore. Parlando di bellezza, non possono ignorare l'abominio. Parlando dell’umano, non possono essere ciechi e sordi di fronte al disumano.

Se non lo fa, l'arte è solo ornamento. Un "ornare" che lubrifica i meccanismi del disumano.

Eppure oggi ho paura di esaurire le parole. Le ho scritte, dette, gridate: io e pochi altri.

Per dire che a Gaza si decide il destino di tutti noi – come esseri umani.

Siamo alle porte di un abisso sempre più vicino, che parte da Gaza e arriva in Iran: la cecità volontaria di tutti noi di fronte alla barbarie perpetrata da Israele, con la complicità degli Stati Uniti.

E ora, accanto all’inferno di Gaza, il bombardamento dell’Iran. Uno Stato senza armi nucleari colpito da uno Stato che le ha, illegalmente, senza trattati, senza ispezioni: Israele.

E di nuovo, da un lato gli intellettuali servili che usano come argomento altri corpi, quelli delle donne, per giustificare l'aggressione a uno Stato, dall'altra, nuovamente, il silenzio degli artisti.

Perché se continuiamo a concedere a Israele ogni violazione, ogni abominio, quelle stesse violazioni e quegli stessi abomini arriveranno a noi. E non solo come simbolo, ma come effetto: il precedente che farà testo, la possibilità di violare qualsiasi diritto con la certezza dell’impunità.

Ogni artista è soprattutto corpo e voce. Allora usiamo questo corpo per parlare di tutti gli altri corpi negati: ad ogni spettacolo, ad ogni presentazione, ad ogni evento, chiediamo agli artisti – E Gaza?

E GAZA?

Usiamo quel centimetro di palco che abbiamo per mantenere viva la parola Arte, facendo sì che l’indicibile e l’invisibile diventino dicibili e visibili.

Sventolando la bandiera di Gaza.

Pronunciando la parola Gaza. Chiediamolo ad ogni evento. Pronunciamola la parola indicibile.

Che si sia artisti, che si sia pubblico, dal palco o dalla platea: “E Gaza?”.

Per non essere i musicisti del Titanic.

Per essere, finalmente, di nuovo umani: “Dov’è Gaza?”.

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