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Iran: dietro il radicalismo gli errori dell'Occidente
di Paolo Mossetti
L’impresentabilità del regime iraniano ha certamente nuociuto alla causa palestinese: ha alimentato la retorica securitaria israeliana e occidentale, facilitato l’infiltrazione del Mossad e offerto un alibi ai governi europei che, prevedibilmente, non vedevano l’ora di tornare allo status quo, riabilitando Israele come alleato imprescindibile.
Ma sarebbe un errore fermarsi qui. La crescita dell’influenza di Hamas e Hezbollah, ad esempio, non nasce nel vuoto: è una diretta conseguenza della War on Terror lanciata dagli Stati Uniti, e in particolare dell'invasione dell’Iraq nel 2003. Quel conflitto scriteriato ha aperto un varco che ha permesso a Teheran di estendere la propria rete di alleanze regionali, con Hezbollah in prima linea. L'invasione america statunitense in Iraq ha fatto scattare l’allarme a Teheran, che si è attivata per logorare gli Stati Uniti sul campo, rafforzando i propri proxy sciiti nella regione.
È in quel momento che Teheran diventa - anche per calcolo di sopravvivenza - il perno di un asse militare antistatunitense. E sempre in quel contesto, la Corea del Nord trae una conclusione simile: solo dotandosi dell’arma nucleare si può scoraggiare l’interventismo occidentale. Ha contribuito alla paranoia anche il fatto che, nello stesso periodo, negli Stati Uniti e in Israele hanno guadagnato terreno le destre più radicali, quelle più inclini a una visione escatologica e a un conflitto permanente contro «i nemici della civiltà».
Oggi ci ritroviamo con gli stessi ideologi degli anni Zero, gli stessi responsabili di errori terribili in Est Europa dopo il crollo del Muro di Berlino, i contributori all'ondata populista, che ripetono slogan identici a quelli di un quarto di secolo fa: a cominciare dal mantra secondo cui Israele sia una democrazia funzionante e che questa vada esportata - insieme alla libertà d'impresa - tra le donne e le minoranze iraniane con la forza bruta, e chissenefrega degli effetti collaterali.
Rifiutare la lettura semplicistica della storia di certi segmenti conservatori e liberali col coltello tra i denti non significa giustificare le teocrazie, né subire il fascino dell’anti-occidentalismo.
Ricostruire le ragioni storiche che hanno spinto l’Iran verso la radicalizzazione, riconoscere il fallimento strutturale delle sanzioni, pretendere prove certe dell’effettiva minaccia iraniana e immaginare - per quanto difficile e tesa - una coesistenza tra modelli diversi di sviluppo in Medio Oriente, giudicando catastrofiche lo scenario di una guerra civile in Iran non è complicità. È esercizio di realismo progressista, l’unico antidoto a una politica estera fatta di automatismi ideologici e di alleanze cieche.
E, rispetto a 25 anni fa, non è più una posizione terribilmente minoritaria, o confinata al solo pacifismo di sinistra.
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