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Le bombe non portano la democrazia
di Leandro Leggeri
A prescindere da cosa si pensi dell’Iran e del suo governo — giudizi legittimamente diversi e spesso critici — viene da chiedersi: davvero c’è qualcuno convinto che bombardarlo possa produrre un “regime change” amico dell’Occidente?
Ma su quale manuale di geopolitica immaginaria si fonda questa idea? Su un film di Hollywood? Su un desiderio espresso tra una chiacchiera da bar e un tweet ispirato?
Perché, storicamente parlando, l’idea che l’aggressione militare dall’esterno indebolisca un regime autoritario è una delle illusioni più dure a morire — e anche una delle più regolarmente smentite dai fatti.
Giusto per fare un esempio concreto: dopo la rivoluzione del 1979, l’Iran era in una fase di grande incertezza interna. Le fazioni erano numerose, i conflitti ideologici accesi, e la Repubblica Islamica non era ancora del tutto consolidata. Poi, nel 1980, Saddam Hussein invade il paese con il beneplacito più o meno esplicito degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
Risultato? L’Ayatollah Khomeini utilizza immediatamente la guerra con l’Iraq come strumento di legittimazione: l’emergenza nazionale gli permette di eliminare ogni opposizione interna, rafforzare il controllo sui media, mobilitare masse di giovani in nome del martirio, e costruire una narrazione epica di resistenza che diventa il collante ideologico del regime.
Insomma, lungi dall’indebolirlo, l’attacco rafforza Khomeini. Trasforma un’autorità ancora incerta in un potere monolitico, proprio grazie alla minaccia esterna.
Ma certo, vai a spiegare tutto questo a chi ancora oggi pensa che sganciare bombe sia un modo valido per “esportare la democrazia”. Forse nella prossima stagione di Game of Geopolitics funzionerà.
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