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L'isola del miele
di
Rinaldo Battaglia *
"Faccio presente che si rende assolutamente necessaria la recinzione completa del campo, onde evitare fughe da parte di qualche internato. A tale proposito bisogna rilevare che quando si presenta la motobarca di cod. Questura per prelevare gli ostaggi da fucilare, nel campo si nota un certo orgasmo, e c'è da temere che qualcuno, per paura di essere prelevato, tenti l'evasione per sfuggire alla fucilazione."
Sono le parole scritte nella lettera che due giorni dopo, il 12 giugno 1943, Carlo Sommer, il comandante fascista del campo di concentramento italiano di Melada, indirizzò alla questura di Zara. Come si legge nel documento, il campo era in realtà un luogo di detenzione temporanea di "ostaggi da fucilare".
Melada (Molat in croato) era chiamata al tempo di Roma “Insula Melata” ossia l’isola del miele. Ma ai tempi del Duce era l’isola ‘del male’ non ‘del miele’.
A Melada, che era il secondo per dimensioni nei territori annessi dopo quello di Arbe/Rab e che dipendeva dal Governatorato civile della Dalmazia, vennero imprigionati all'incirca 10.000 civili, quasi tutti slavi: 954 di essi morirono sia a causa delle pessime condizioni igieniche, sia per le fucilazioni a scopo di rappresaglia (i fucilati furono oltre 300). Melada venne chiuso subito dopo l’8 settembre ’43.
Venne inaugurato, nell’omonima isoletta poco lontana da Zara il 29 giugno ‘42 col primo carico di ben 223 persone di cui 108 donne e 44 bambini. Già nella ‘conta’ del 15 agosto’42 i bambini era aumentati a 450 di cui 10 nati nel campo. Erano il 20%: il resto 1021 donne e 866 uomini per totali 2337.
A dicembre col freddo si arriverà a 2400, la capienza massima.
A dirigere il campo due fascistoni scelti personalmente dal Duce: Leonardo Fantoli e Carlo Sommer e i militari del XVI Battaglione dei Carabinieri Reali Mobilitato. Documenti del 8 giugno ’43 parlano dell’arresto di 4 croati ‘sospettati di favoreggiamento dei ribelli’ e soprattutto di almeno 100 loro familiari di Siroke, Capocesto e Pogomizza. 100 familiari: saranno andati indietro di 7 generazioni!
Medesimo discorso il 18 luglio, con rastrellamento dell’isola di Prvic (Provicchio) per ‘raccogliere ed internare’ 68 familiari dei ‘sospetti’, arrestati e deportati a Melada.
La struttura del campo di concentramento occupava la superficie di un chilometro quadrato, delimitato da filo spinato e da cinque torrette fornite di mitragliatrici e garitte per le sentinelle. La capacità di accoglienza era di 1200 persone, ma le presenze superavano di gran lunga questa cifra. Inizialmente disponeva solo di tende, le persone dormivano per terra, sopra un sottile strato di paglia; poi furono costruite dodici grandi baracche di legno impiantate su fondamenta di cemento con capacità nominale di 100 posti ciascuna. Fu costruito un grande lavatoio, privo di acqua corrente e posto in riva al mare. Cinque latrine.
Scrive la storica dell’arte Fabiana Salvador che se tu visiti oggi Molat, trovi ancora adesso “qualche edificio abbandonato e strani reperti architettonici ordinati e ripetitivi, di epoca ben successiva a quella romana. Si va quasi a sbattere contro una salda costruzione cementizia, una torretta con inquietanti inferriate. E una targa: non serve conoscere il croato per tradurre: “Talijanki fašistički okupator/ Koncentracijski logor/ 20000 interniraca”.
Parole che parlano di memoria, di sofferenza e morte. Tra il silenzio attorno e la vergogna di essere lì ora da italiani sebbene magari in gita turistica. Perchè Molat, l’isola del miele, dall’aprile 1941 è stata occupata da noi italiani. E da fascisti subito ebbe inizio la ‘violenta italianizzazione dei territori conquistati’, secondo un modello già proposto altrove, nelle altre zone della Slovenia e dell’Istria.
“Furono inviati, come amministratori, i segretari politici del Fascio, del Dopolavoro, dei Consorzi agrari e medici, e poi maestri ed impiegati comunali. L’italiano fu imposto come lingua obbligatoria per funzionari e insegnanti. Le insegne scritte in croato furono sostituite da quelle in italiano. Proibiti giornali, manifesti, vessilli in croato.
Sciolte le società culturali e sportive. Imposto il saluto romano. Ripristinati i cognomi italiani, tradotti i nomi geografici, delle vie, delle piazze, ecc. Prestiti e sovvenzioni furono destinati a coloro che erano disposti a snazionalizzarsi. Furono acquistati terreni da ridistribuire agli ex combattenti italiani. E stabilite borse di studio per i Dalmati che avessero voluto continuare gli studi in Italia. Ma soprattutto vennero istituiti dei tribunali speciali e militari contro la resistenza.
Massici furono i rastrellamenti e le operazioni repressive condotte dall’esercito italiano di occupazione per stroncare qualsiasi tentativo di ribellione delle popolazioni. Fucilazioni, saccheggi, incendi di case. Arresti e deportazioni nei vari campi di detenzione divennero prassi comune”.
Le parole di Fabiana Salvador rendono bene l’idea che non serve cambiarle.
Il 25 Aprile 2021 l’allora Premier Mario Draghi disse due parole in croce che fotografano quella realtà di crimini fascisti in terra slava: ‘dobbiamo anche ricordarci che noi italiani non fummo tutti brava gente’.
Quel Premier lo disse a voce alta, altri - prima e dopo - preferirono fermarsi solo al crimine delle foibe slave decontestualizzando quell’altrettanto criminale realtà. Quello attuale persino si dimentica di dire chi firmò le ‘infami’ leggi razziali (Roma 13 dicembre 2022).
Ma è difficile dire la verità storica, anche se criminale, anche se sporca?
Certo - capisco - i propri fans vanno coltivati, costruiti e probabilmente poco informati. Altrove si chiama vantaggio competitivo.
Ma quella è politica di bassa, bassissima lega, di nostalgici sebbene seduti su alte poltrone, la Storia è altra cosa e andrebbe conosciuta. E come scriveva Alessandro Manzoni, ‘non sempre ciò che vien dopo è progresso’.
12 giugno 2025 – 82 anni dopo
* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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