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USA: prima vennero per Mahmoud
di Marilina Mazzaferro
"Prima vennero vennero per Mahmoud" era scritto sul cartello portato da un manifestante per sostenere la liberazione di Mahmoud Khalil, il laureato della Columbia University, detenuto dall'Immigration and Customs Enforcement (ICE) in Louisiana. E' un chiaro riferimento ai versi di Martin Niemöller sull'indifferenza degli intellettuali tedeschi in seguito alle purghe dei nazisti nei confronti di obiettivi che cambiavano di volta in volta (Prima vennero per i socialisti, e io non dissi niente, perché non ero socialista. Poi vennero per i sindacalisti, e io non dissi niente, perché non ero un sindacalista. Poi vennero per gli ebrei, e io non dissi niente, perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me, e non c'era più nessuno a protestare per me.)
Khalil, trasferito dal suo stato d'origine, New York, a 2.253 chilometri di distanza, in Louisiana, ha presentato una richiesta di rilascio mentre un giudice federale valuta la sua decisione sul caso: "I danni irreparabili che ho subito – e continuo a subire… (sono il) risultato delle azioni del governo contro di me", ha scritto.
"Questi danni sono di vasta portata: includono danni alla dignità e alla reputazione, difficoltà personali e familiari, tra cui la costante paura per la mia incolumità personale, la detenzione continua, restrizioni alla mia libertà di espressione e gravi danni al mio futuro professionale", ha continuato.
Khalil, 30 anni, rischia l'espulsione dopo che l'amministrazione Trump ha ordinato all'ICE di arrestarlo per il suo attivismo pro-palestinese nel campus. Inizialmente era stato preso in custodia l'8 marzo e trasferito in Louisiana senza un regolare processo, né un'udienza in tribunale né la nomina di un avvocato, e da allora è trattenuto lì, perdendo la possibilità di partorire suo figlio.
"Invece di tenere la mano di mia moglie in sala parto, ero accovacciato sul pavimento di un centro di detenzione, a sussurrare attraverso una linea telefonica gracchiante mentre lei era in travaglio da sola", ha detto Khalil. "Quando ho sentito i primi vagiti di mio figlio, ho nascosto il viso tra le braccia perché nessuno mi vedesse piangere".
La documentazione di Khalil spiega quella che lui stesso descrive come l'umiliazione che ha subito da quando è stato arrestato.
"Ricordo di aver visto le dichiarazioni pubbliche rilasciate dalla Casa Bianca e dal Presidente Trump sui social media", ha scritto Khalil. "È difficile descrivere l'umiliazione e il dolore nel vedere foto segnaletiche di me stesso diffuse dai più alti livelli del governo degli Stati Uniti, accompagnate da un linguaggio provocatorio, accuse grottesche e false, e da un'aperta celebrazione della mia deportazione".
"Non si trattava solo di attacchi alla mia reputazione; erano tentativi di cancellare la mia umanità", ha affermato.
La portavoce del Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), Tricia McLaughlin, ha affermato che Khalil dovrebbe semplicemente autoespellersi, riferendosi all'offerta dell'amministrazione Trump di un pagamento di 1.000 dollari e di un volo gratuito per il suo Paese d'origine.
Khalil ha ottenuto la green card per la residenza legale negli Stati Uniti, ma l'amministrazione Trump afferma di volerla revocare nell'ambito della repressione del presidente contro gli studenti che hanno partecipato alle proteste pro-palestinesi.
La scorsa settimana, un giudice federale del New Jersey ha dichiarato che il tentativo dell'amministrazione Trump di espellere Khalil è probabilmente incostituzionale.
Il giudice Michael Farbiarz ha scritto che la principale giustificazione del governo per l'espulsione di Khalil – ovvero che le sue convinzioni potrebbero rappresentare una minaccia per la politica estera statunitense – potrebbe aprire la strada a un'applicazione vaga e arbitraria delle sanzioni nei confronti di altri.
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