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Israele detiene vedova di miliziano la cui salma non viene restituita
di
Tamara Gallera
L'associazione dei prigionieri palestinesi ha condannato la decisione di un tribunale israeliano di Haifa di prorogare fino a martedì la detenzione dell'attivista Sanaa Salameh, vedova di Walid Daqqa, arrestata a Gerusalemme. L'organizzazione ha descritto la sentenza come parte di una lunga campagna di vendetta e sistematica repressione politica condotta da Israele contro Walid Daqqa e la sua famiglia.
Sanaa Salameh è la vedova di Walid Daqqa, figura di spicco del movimento dei prigionieri palestinesi, deceduto nell'aprile dello scorso anno. Condannato a 38 anni di carcere per aver comandato un gruppo affiliato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che aveva rapito e ucciso un soldato israeliano, nelle carceri israeliane ha subito continue torture sistematiche, negligenza medica e dure condizioni punitive.
Nonostante la sua morte, le autorità di occupazione continuano a trattenere il suo corpo in celle frigorifere, rifiutandosi di restituirlo alla famiglia, una decisione ampiamente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani perché considerata una violazione della dignità umana fondamentale.
Giovedì sera le forze di occupazione israeliane hanno arrestato Salameh mentre tornava da Ramallah nei territori palestinesi occupati dal 1948.
Secondo la dichiarazione, la proroga della detenzione di Salameh giunge in un contesto di intensificati tentativi di istigazione alla violenza nei suoi confronti. Uno di questi casi è stato il recente appello del ministro estremista Itamar Ben Gvir a privarla della cittadinanza e a deportarla dalla Palestina occupata.
L'Associazione ha sottolineato che questa istigazione fa parte di una più ampia politica volta a colpire le famiglie dei martiri e dei prigionieri palestinesi e ha sottolineato che Israele continua ad intensificare la persecuzione di migliaia di famiglie di detenuti e martiri. Ciò avviene attraverso molestie, minacce, sorveglianza e arresti sistematici, spesso con il pretesto del cosiddetto "incitamento" contro l'occupazione.
Questa accusa, ha affermato l'Associazione, è diventata un meccanismo centrale per imporre un ulteriore controllo, consentendo politiche di censura, oppressione e intimidazione politica contro la popolazione palestinese sotto occupazione.
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