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31 maggio 2025
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Finito il tempo della paura
di Rossella Ahmad

Non solo non è più il tempo delle frivolezze, delle operazioni estetiche, dell'auto-assolvimento narcisista.

È finito anche il tempo della paura, e questo lo dico ai tanti che ancora oggi temono di esporsi, di parlare, di esprimere ciò che sentono, di prendere una posizione.

Guardate ai palestinesi. Un popolo che ha dato e continua a dare l'ispirazione a molti su cosa significhi l'Altissimo Vivere di cui parla Filippo Kalomenìdis. Che ci dimostra ogni giorno il senso del coraggio, dell' "avere cuore", secondo l'etimologia del termine, e del resistere senza paura: perché si deve, perché è un imperativo categorico - solo e unico principio a priori della ragione, che comanda alla volontà di essere buona in se stessa, cioè di agire prescindendo da qualunque inclinazione sensibile e da qualunque fine particolare, assumendo un punto di vista universale, secondo Kant - al quale solo gli invertebrati possono sottrarsi.

Fare ciò che è giusto. Non ciò che è comodo. E fare propria la massima secondo cui chi abbia coraggio muore una sola volta; e chi non lo abbia muore tutti i giorni. Oggi è ancora più semplice. Oggi che il sangue di Gaza ha travolto il mondo senziente. Oggi che è stato sdoganato/scardinato un concetto fondamentale: l'impunità di israele - e non l'antisemitismo gne gne gne come vanno piagnucolando gli apologeti del crimine del secolo.

La gente si fa domande importanti sul perché, e scomoda i massimi sistemi.

E se ne è sdoganato/scardinato anche un altro, ancora più fondamentale: il dogma dell'inamovibilità di Israele, vissuto fino a due anni fa come la conditio sine qua non da cui dipendesse la vita di ciascuno sul pianeta. Oggi ci si interroga sul senso di quell'esistenza, se sia utile, se ne valga la pena, a cosa sia servito. E soprattutto si comincia a parlare di merito. Individui che sino a ieri si sarebbero immolati sull'altare del diritto di Israele all'esistenza, si chiedono se ne sia meritevole.

Un anno e mezzo fa, immediatamente prima del pronunciamento della Corte dell'Aja, una sionista del web mi arringò con poche, superbe parole. Fidati, avete perso, mi scrisse.

Già allora mi chiesi il senso di quelle parole, non soltanto quello generale di fronte al sangue che sgorgava a fiotti da Gaza, ma anche quello letterale. La vittoria è un processo, richiede tempo, pensai. Non si ottiene in un giorno.

Gli eventi mi hanno dato ragione, in merito al pronunciamento dei giudici dell'Aja, secondo cui non solo le azioni di Israele a Gaza sono compatibili con il genocidio, ma ne sono addirittura un caso da manuale. E perché da allora sono nati infiniti fronti di guerra all'interno delle nostre società, i più impensati.

Se il silenzio è complicità sempre, oggi lo è ancora di più.

Le zone d'interesse si sgretolano piano piano. Ne persistono sacche, inscalfibili.

Non è a loro che ci rivolgiamo.

Credono di non vedere, ma di fronte a loro c'è l'abisso. Siedono tranquille all'interno di un McDonald's esattamente come, di fronte alle tragedie epocali, c'era chi si occupava della fioritura delle rose, che l'acqua della piscina fosse ben pulita, che i ragazzi avessero fatto abbastanza sport.

Ma è l'abisso che osserva loro, in realtà.

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