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23 maggio 2025
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Cambiano idea su Gaza per manipolare, come fecero con l'antimafia
di Alessandro Ferretti

Negli ultimi giorni, un fenomeno evidente sta emergendo nel panorama mediatico e politico: personaggi pubblici, politici, giornalisti e influencer, che per seicento giorni hanno negato o minimizzato gli orribili massacri in corso a Gaza, stanno improvvisamente modificando il loro atteggiamento. Le loro dichiarazioni, pur evitando il più possibile di usare il termine "genocidio", denunciano con inedita vocalità i crimini israeliani a Gaza. Cosa ha reso possibile questo riposizionamento così sincronizzato e improvviso?

Il motivo principale è che la narrazione mainstream costruita attorno al conflitto era ormai da tempo alla frutta e stava perdendo coesione. Per oltre un anno e mezzo, le testimonianze di chi denunciava il genocidio sono state emarginate, censurate o ridotte a "voci isolate". Tuttavia, il peso accumulato delle prove, delle immagini, delle analisi critiche e delle manifestazioni ha cominciato a fuoriuscire dai confini imposti dai media mainstream.

Il sistema politico-mediatico, che per decenni ha controllato la rappresentazione dei crimini israeliani, rischia oggi di perdere il monopolio della narrazione e del consenso globale. Ecco allora che il "risveglio" improvviso di certi intellettuali e opinion leader si rivela più uno strumento di gestione del panico che una sincera conversione etica.

Un esempio paradigmatico è offerto da un post recente di Gad Lerner, che commenta una frase dello scrittore David Grossman (“Davanti a tanta sofferenza, il fatto che questa crisi sia stata iniziata da Hamas il 7 ottobre è irrilevante”) scrivendo “qualcuno in Israele doveva finalmente dirlo”. La frase di Grossman appare compassionevole ma in realtà perpetua una mistificazione: ribadisce la narrazione dell’attacco del 7 ottobre come "origine" della tragedia, cancellando decenni di occupazione, pulizia etnica e apartheid, e parla genericamente di “sofferenza” invece che di crimini perpetrati da Israele.

Ma il punto principale è che Lerner cita la frase come se fosse la prima volta che qualche israeliano si esprime sulla questione, quando sappiamo benissimo che non è vero: molti altri israeliani, come Gideon Levy o il movimento degli obiettori di coscienza israeliani – alcuni dei quali hanno scontato pene detentive per aver rifiutato di partecipare alle operazioni militari a Gaza – hanno denunciato con forza ben maggiore la realtà del massacro.

In questo modo, in un sol colpo Lerner invisibilizza i veri oppositori del genocidio e consegna la patente di “giusto” cui fare riferimento a Grossman che non è mai stato un critico coraggioso: per quasi un anno e mezzo è stato rigorosamente in silenzio, e quando a febbraio si è finalmente espresso ha rimestato la terribile retorica dei “due popoli distrutti dall’odio” senza alcuna denuncia puntuale dei crimini del suo Paese: una figura molto meno scomoda di Levy, che "critica" senza scalfire il cuore del potere.

Parallelamente, osservo un fenomeno preoccupante sui social network. Uno dei parametri più importanti per comprendere la diffusione dei post sui social network è il rapporto tra interazioni e visualizzazioni: in generale, più interazioni ci sono e più l’algoritmo mette in circolo il post. Secondo le statistiche, questo rapporto su Facebook è mediamente inferiore all’1%, ovvero un’interazione genera oltre 100 visualizzazioni.

In un anno e mezzo di controinformazione e denunce dei crimini israeliani, i miei post hanno avuto un rapport intorno all’8%, il che vuol dire che un’interazione genera solo 12 visualizzazioni.. ma nell’ultima settimana ho notato un ulteriore crollo verticale: i miei ultimi tre post hanno un rapporto interazioni- copertura superiore al 15%, ovvero un’interazione genera solo sei visualizzazioni. In pratica, i miei post vengono ora mostrati solo a una ristrettissima bolla di persone già ampiamente sensibilizzate sull’argomento.

L’obiettivo è chiaro: dato che adesso c’è un forte interesse del pubblico ad approfondire ciò che Israele sta facendo a Gaza, è importante convogliare questo interesse su coloro che sono rimasti fulminati giusto ieri sulla via di Damasco e allo stesso tempo prevenire che le persone interessate alla questione leggano analisi più radicali e documentate, che smascherano la retorica umanitaria dei nuovi "paladini" e riconducono il genocidio alla sua radice – un progetto ideologico di sterminio sostenuto da larga parte della società israeliana.

Ma c’è un aspetto ancora più inquietante. Questo riposizionamento non è solo un tentativo di controllare la narrazione: è anche una strategia per guadagnare tempo, permettendo a Israele di completare il suo obiettivo finale. L’allucinante escalation militare e la disperazione indotta dalla mancanza di cibo, medicine e infrastrutture sta distruggendo non solo i corpi dei palestinesi, ma la stessa possibilità di coesione sociale.

Gaza, ormai da seicento giorni, è un laboratorio di annichilimento totale. La fame e la disperazione vengono scientemente inflitti per generare conflitti interni: il fine è rompere i legami di solidarietà e spingere le persone ad ammazzarsi tra loro per un sacco di farina, per far precipitare l’intera società si avvia verso una spirale di anarchia feroce. Questo collasso non è un effetto collaterale: è parte integrante del progetto di pulizia etnica, che mira a rendere impossibile la sopravvivenza di una popolazione organizzata e unita, aprendo la strada alla sua sostituzione.

Questo schema non è nuovo. Lo stesso meccanismo è emerso ad esempio in Italia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, che uccisero i giudici Falcone e Borsellino. In quei giorni, l’opinione pubblica fu travolta da un’ondata di indignazione, e i media enfatizzarono arresti spettacolari di esponenti mafiosi. Tuttavia, una studentessa siciliana raccontò in un’intervista un paradosso amaro: «Per anni ci avevano detto che la mafia non esisteva. Dopo le stragi, ci hanno detto che la mafia esisteva, ma adesso non esiste più perché l’abbiamo sconfitta. La realtà è che la mafia continua a essere presente in Sicilia, legata alla politica, e compie i suoi crimini come prima».

Il ciclo di negazione, improvvisa presa di coscienza, illusione della soluzione si ripete oggi con il genocidio di Gaza. Chi per un anno e mezzo ha nascosto i crimini israeliani e che ora si espone comunque timidamente sta trasmettendo il concetto «State tranquilli, prendiamo in mano la situazione. Potete tornare a occuparvi di calcio o di cucina». Ma proprio come la mafia non è stata sconfitta dagli arresti simbolici, il progetto di sterminio a Gaza non si ferma: si adatta, si camuffa, e continua a distruggere.

Il riposizionamento dei potenti è quindi una potente arma di distrazione, mentre la macchina israeliana del genocidio non si ferma: anzi, accelera. Ma la battaglia per il racconto non è secondaria a quella fisica. Chi ha denunciato sin dall’8 ottobre deve continuare a parlare, a mostrare i documenti, a raccontare la storia senza censure. Perché solo la verità, non la retorica, può fermare il prossimo massacro.

E' il momento di rilanciare, è il momento di esigere da chi tardivamente e timidamente si riposiziona degli atti concreti, significativi e inequivocabili. Il rischio concreto è che il tempo guadagnato attraverso questa la manipolazione mediatica venga usato per completare l’annientamento di Gaza, e che i riposizionamenti dell’ultima ora servano solo a guadagnare agli ipocriti un posto in prima fila alle esequie del popolo palestinese.

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