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Davanti all'orrore The show must go on
di Alessandro Negrini
Nella giornata di generale giubilo per l'insediamento del nuovo Papa, provo, nel mio piccolo, a rovinare la festa.
Inizio col manifestare un mio personale disagio, legato a poche settime fa, al giorno della scelta del nuovo Papa. Una cosa mi ha profondamente colpito: la piazza prima stracolma di fedeli sgomenti e inconsolabili alla morte di Francesco, pochissimi giorni dopo quella stessa piazza sempre stracolma degli stessi fedeli, festosa e gaudente a livelli dello stadio Maracanà. Dall'enorme dolore alla esaltata gioia, senza passaggi, diretta, senza elaborazioni.
È, paradossalmente, la cosa che meno amo della visione cinica e disincantata di questa società e che, paradossalmente, si replica nei giorni del conclave: l'idea che tutti e tutto siano sostituibili, che il mondo debba andare avanti in fretta, e non c'è tempo per fermarsi a fare spazio e tempo dentro, anche se è folle e ingiusto, perché il dolore di chi piangiamo per evolvere nella dignità ha bisogno di spazio, e ha bisogno di tempo.
Questo mi ha fatto pensare una cosa: che probabilmente è questo ciò che, al di là di ciò che ai cattolici potrebbe unirmi, da loro mi separa: l'incapacità di affrontare sino in fondo il lutto. Il gestirlo sino a metà. E aggiungo, il lutto specifico del Papa che si volatilizza nel giro di poche ore sostituito dal giubilo è, paradossalmente, vicino alla cosa meno spirituale, meno cristiana che nel mondo contemporaneo sia mai esistito: il neoliberismo.
Perché "morto un papa se ne fa un altro", e non c'è troppo tempo per piangere, perché il nuovo deve arrivare subito, sostituibile anch'esso in una sorta di simbolico supermercato della fede dove, come un articolo, se rotto, non più funzionante, lo si può facilmente sostituire senza stare a piangerci troppo sopra.
"Morto un Papa se ne fa un altro", con una capriola emotiva inimmaginabile nella vita privata ma immaginabile nel mercato del "sostituibile", che consente nel giro di poche ore da un lutto devastante di trovarsi a cantare, a gridare la gioia per il nuovo arrivato.
Ma è nella messa di insediamento del nuovo Papa Leone XIV che ho provato ancora più disagio.
Verificare come, nella Chiesa di Leone XIV così come nella società, in totale controtendenza al posizionarsi di Papa Francesco, la Chiesa abbia celebrato questa giornata rientrando nei ranghi, in perfetta linea col mondo intero: proseguire tutto, tutto, dal Salone del Libro all'insediamento del Papa, semi-ignorando l'abisso dell'umanità raggiunto da tutti noi: Gaza.
Leone XIV ha pronunciato la parola amore, e ha pronunciato la parola Gaza in poche timide parole, neutre, solo alla fine, parole mai di vera denuncia ma di corollario e che, almeno a me, sono suonate vuote e simili a quelle che leggo ora in alcuni quotidiani silenti sino a ieri, parole dette perché dovute e mai di - ribellione. Perché o al genocidio ci si ribella, o se ne è complici. Non un sussurro, ma un grido, lungo, coraggioso, potente.
Non esiste umanesimo possibile, men che meno un cristianesimo possibile, senza schierarsi contro l'abominio perpetrato da Israele, pronunciandone il nome, denunciandolo.
Perché la barbarie di oggi è il "Business as usual" di fronte a un genocidio visibile in diretta su qualunque social. Perché tutto questo è parte della stessa alienazione umana in cui siamo finiti: il proseguire le nostre vite come se non vi fosse, al nostro fianco, un genocidio.
Gaza è IL tema di questa abnorme dissociazione umana, che va agli spettacoli con nessun regista, attore, performer che la menzioni. Che va al Salone del Libro e la cultura che la ignora, che conclama un nuovo Papa e la ignora.
Così, ogni cosa si disumanizza, che sia il Salone del Libro, che sia uno spettacolo a teatro o la conclamazione di un Papa. Perché il grado ultimo dell'alienazione umana è proprio questo: davanti agli scarti del mondo, the show must go on.
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