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Nakba continua 77 anni dopo
di Leandro Leggeri
LA NAKBA CONTINUA: GAZA È LA NUOVA DEIR YASSIN
Il 15 maggio 1948 lo Stato di Israele veniva proclamato. Per i palestinesi, quella data segnava l’inizio della Nakba – “la catastrofe” – che in pochi mesi avrebbe portato all’espulsione dell’80% della popolazione araba autoctona, alla distruzione di oltre 500 villaggi e alla dissoluzione sistematica di una società viva, complessa, urbana e rurale, culturale ed economica.
La Nakba non fu un singolo evento, né una conseguenza inevitabile della guerra. Fu una strategia militare e politica premeditata, attuata con massacri, esecuzioni sommarie, incendi, e lo svuotamento forzato delle città portuali più prospere. La società palestinese non fu solo scacciata dalla terra: fu spenta nella memoria ufficiale, cancellata dalle mappe, riscritta nelle lingue e nei simboli di chi prese il suo posto. Quella distruzione, avvenuta mentre le tavole restavano apparecchiate e i libri ordinati sugli scaffali, non è mai finita.
Settantasette anni dopo, la catastrofe è più viva che mai.
Gaza, oggi, è la prosecuzione della stessa logica di annientamento. Due milioni di persone – quasi l’intera popolazione – sono sfollate. Le infrastrutture sono state sistematicamente distrutte. Interi quartieri rasi al suolo senza preavviso. Gli ospedali bombardati, le scuole trasformate in cimiteri, i mercati in crateri. I corpi vengono estratti dalle macerie con le mani, mentre si assiste all’assedio di ciò che resta. Si colpiscono gli ospedali e si ordina l’evacuazione dei pazienti. Anche la fuga diventa impossibile.
È la stessa strategia del 1948, aggiornata con le tecnologie del 2025. Allora i palestinesi furono costretti alla fuga con la forza, oggi lo sono per fame, per paura, per disperazione. Allora furono caricati su camion, oggi vengono spinti a sud attraverso canali di aiuti umanitari usati come strumenti di controllo. Si parla apertamente di "trasferimento", si invoca lo spopolamento, si estende una "zona cuscinetto" che altro non è se non la rimozione fisica della presenza palestinese.
Nel frattempo, in Cisgiordania, le sirene suonano in segno di lutto, mentre commemorare pubblicamente la Nakba in Israele è vietato per legge. La memoria stessa è criminalizzata. La rimozione della storia procede di pari passo con la cancellazione del presente.
Ma la memoria palestinese non si piega. Da decenni, dai campi profughi del Libano ai vicoli di Nablus, dalle rovine di Khan Younis alle tende di Rafah, la consapevolezza è una sola: la Nakba non è finita. È quotidiana. È il filo che lega la pulizia etnica del 1948 al colonialismo militare del 2025.
Eppure, malgrado ogni tentativo di annientamento fisico e simbolico, il popolo palestinese continua a esistere, parlare, trasmettere, resistere. Con i nomi dei villaggi perduti incisi nei canti, con le chiavi di casa appese al collo, con le storie tramandate in ogni campo, in ogni rovina, in ogni silenzio.
Non è solo un ricordo: è una lotta per la verità.
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