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Shireeen vive ancora
di Rossella Ahmad
Tra Gerusalemme e Betlemme, sul muro di apartheid che separa i palestinesi dal resto del mondo, uno Jorit del luogo ha riprodotto il viso di Shireen Abu Akla, con un messaggio: Vive ancora.
Nella storia del giornalismo palestinese è stata la più celebre, la più amata.
L'abbiamo conosciuta negli anni dell'intifada, attraverso le sue lunghe dirette da Ramallah, mentre sul campo, in mezzo agli spari, testimoniava la violenza cieca di un pugno di psicopatici in divisa contro un popolo che si sollevava contro il sopruso.
Ricordo il suo coraggio, ma anche il suo garbo. La determinatezza ed il rigore con cui svolgeva il suo compito, che era cruciale: mostrare ciò che mai era stato mostrato. Dare voce. Testimoniare. E lei ne sentiva tutta la responsabilità ma anche tutto l'orgoglio.
Con la sua sola, sorridente presenza scardinava un milione di stereotipi sedimentati nelle menti deboli d'Occidente: donna, araba, cristiana di fede e musulmana culturale, esattamente come il meraviglioso essere che coniò questa riuscitissima espressione - un concetto che dà il senso dell'essere mediorientali - Edward Said.
Si trattò di un'uccisione deliberata, la sua, come stabilì un'inchiesta dell'Onu del giugno dello stesso anno, dopo vari e reiterati tentativi di insabbiamento da parte di Israele. Un cecchino appostato in un'area relativamente tranquilla di Jenin mirò alla testa di Shirin con il suo fucile di precisione americano Ruger M40. Il proiettile penetrò da una parte del cranio e fuoriuscì dalla fronte mentre il suo collega Alì Samoudi, con il quale copriva l'assalto israeliano al campo profughi di Jenin, fu ferito ad una spalla.
Ad entrambi fu negato il tempestivo intervento medico , prassi consolidata in Palestina, dove le ambulanze sono sottoposte a loro volta a cecchinaggio e fermi immotivati.
Atroci le circostanze dei partecipatissimi funerali, a Gerusalemme.
La folla fu fatta oggetto di spari ed attacchi con bastoni e granate e la bara che recava le spoglie mortali di Shireen strattonata, vilipesa, spinta, aggredita. Come le era accaduto tante volte in vita.
Persino il suo memoriale fu in seguito demolito e dato alle fiamme.
"Non si era mai visto prima d'ora un funerale caricato dai militari", dichiarò padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa.
Il militare responsabile dell'uccisione, poi identificato in Alon Scajo grazie all'indagine di un'emittente statunitense ed al lavoro di geolocalizzazione condotto da giornalisti dell'Associated Press, trovò in seguito egli stesso la morte a Jenin, travolto dagli esplosivi della Resistenza.
Lina Abu Akla, nipote della giornalista-simbolo, instancabile nel chiedere giustizia per Shireen - opera sua fu la presentazione di una petizione al governo degli Stati Uniti affinché aprisse una propria indagine sull'uccisione di sua zia, ha scritto:
"La responsabilità non può fermarsi a un nome o a un volto. La giustizia esige che l'intera catena di comando - coloro che hanno dato gli ordini, coloro che hanno insabbiato il caso e coloro che continuano a negare ogni responsabilità - sia chiamata a rispondere delle proprie azioni. Solo allora potrà esserci qualche speranza di chiudere definitivamente la vicenda, non solo per Shireen, ma per tutti i giornalisti uccisi e le famiglie che cercano la verità”.
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