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Antigiudaismo e antisionismo: una distinzione necessaria
di Leandro Leggeri
L’episodio avvenuto il 3 maggio 2025 alla Taverna Santa Chiara, nel cuore di Napoli, ha riportato al centro del dibattito pubblico la necessità di distinguere con chiarezza tra antigiudaismo e antisionismo, due concetti troppo spesso confusi.
La titolare del locale, Nives Monda, nota per il suo attivismo filo-palestinese, ha chiesto a una coppia di turisti israeliani di lasciare il ristorante dopo un confronto acceso sulla situazione a Gaza. L’episodio è stato immediatamente bollato da alcuni come atto antisemita, mentre la ristoratrice ha rivendicato il gesto come una presa di posizione politica, dichiaratamente antisionista ma non antiebraica.
La Procura di Napoli, esaminando i fatti, ha chiesto l’archiviazione della denuncia presentata dai turisti, ritenendo assenti i presupposti per procedere legalmente.
Al di là del caso in sé, che ha sollevato reazioni comprensibilmente contrastanti, ciò che emerge è la necessità di un chiarimento concettuale. Quando si parla di antisemitismo, sarebbe più corretto – almeno in un’ottica storica – utilizzare il termine antigiudaismo. Questo fenomeno, che ha attraversato secoli di storia europea, ha trovato il suo apice tragico nella Shoah.
Ma dal 1945 in poi, nelle democrazie occidentali, è stato progressivamente delegittimato e contrastato. Oggi, salvo sporadici episodi isolati, gli ebrei godono di piena cittadinanza, tutela giuridica e rappresentanza. Non si può seriamente affermare che siano più esposti a violenze o discriminazioni in città come Londra o New York rispetto a luoghi come Tel Aviv o Haifa, dove la vita quotidiana è segnata da conflitti armati e tensioni permanenti.
Eppure, assistiamo da anni a un uso strumentale dell’accusa di antisemitismo, impiegata per delegittimare ogni critica nei confronti dello Stato di Israele. In questo schema si confondono intenzionalmente due piani distinti: l’odio verso gli ebrei in quanto tali (antigiudaismo) e la critica legittima a un progetto politico, il sionismo, nato nell’Europa ottocentesca da intellettuali ebrei laici come movimento coloniale volto alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, a scapito della popolazione araba autoctona.
È contro questa ideologia di espropriazione e dominio che si rivolge la maggior parte delle critiche antisioniste — non contro l’ebraismo.
Il sionismo, fin dalle sue origini, si è fondato sull’idea di insediare una popolazione in una terra già abitata da un altro popolo. Oggi, numerosi intellettuali — ebrei compresi — denunciano gli effetti di questo progetto, che ha generato espropri, segregazione e un sistema che molti osservatori internazionali definiscono apertamente come apartheid. Contestare questa realtà non significa odiare gli ebrei: significa esercitare un diritto fondamentale di critica politica, come si fa nei confronti di qualunque altro Stato.
Liquidare ogni dissenso come antisemitismo non solo impedisce una discussione seria e necessaria, ma finisce per banalizzare l’orrore del vero antigiudaismo storico: i roghi, i pogrom, le leggi razziali, i campi di sterminio.
Vale infine la pena ricordare che nel mondo islamico, per lunghi secoli, gli ebrei hanno trovato accoglienza e possibilità di integrazione. Dopo la cacciata dalla Spagna, furono proprio le società musulmane del Maghreb e del Mashreq ad accogliere gli ebrei sefarditi in fuga dalle persecuzioni. Salonicco, sotto l’Impero Ottomano, divenne la principale città ebraica del continente europeo, simbolo di una convivenza possibile.
Questa tradizione di coesistenza trova radici profonde anche nella teologia islamica: secondo l’Islam, ebrei e cristiani sono Ahl al-Kitab — “gente del Libro” — in quanto seguaci di rivelazioni precedenti al Corano, riconosciute come provenienti da Dio. In virtù di ciò, godevano dello status di dhimmi, cioè “protetti”, un regime giuridico che, pur segnando una distinzione rispetto ai musulmani, garantiva libertà di culto e sicurezza personale. Pur non privo di limiti, questo sistema rappresentò per secoli un’alternativa assai più tollerante rispetto alla sorte degli ebrei nell’Europa cristiana.
È quindi fuorviante e storicamente scorretto sostenere che l’antigiudaismo sia un tratto intrinseco delle società arabe o islamiche. Al contrario, l’odio verso gli ebrei che si è diffuso in alcune aree del mondo arabo è un prodotto moderno, alimentato da dinamiche coloniali, dalla creazione dello Stato di Israele e dall’occupazione militare, più che da una presunta ostilità religiosa atavica.
Separare con lucidità la critica a un progetto statale da un odio etnico o religioso è oggi un dovere intellettuale e morale. Solo così possiamo difendere la causa palestinese con onestà e rigore, e al tempo stesso onorare la memoria delle vittime dell’antigiudaismo europeo.
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