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12 maggio 2025
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Le madri di Gaza
di Rosella Ahmad

La giornata internazionale delle madri. Che sento in maniera particolare da quando sono diventata madre a mia volta. Non c'è giorno che non ci pensi, ma ieri di più.

Chiunque abbia avuto un bimbo la cui vita dipendeva dal suo grado di cura e di attenzione lo sa. Conosce bene il tormento che si prova quando si teme - quasi sempre immotivatamente - che non sia nutrito a sufficienza. È come se il vento te lo portasse via.

Posso solo immaginare l'ambascia di una madre di Gaza al pensiero dei propri figli senza cibo. È un'angoscia lancinante. Che ti devasta fino all'ultima cellula del corpo. È in effetti ciò che le madri urlano al mondo con più dolore: è morto affamato. È stato ucciso e non aveva mangiato. Come se quel particolare fosse un'aggravante - e lo è - di qualcosa di già estremamente grave, che è la morte di un bambino. Lo capisco e ne provo tutta la rabbia.

Perché, vedete: l'empatia, esigere per tutti il rispetto dei diritti fondamentali che appartengono a ciascuno per il solo fatto di essere nato e di vivere su questo pianeta, non è uno scherzo. È la linea netta che separa la civiltà dalla barbarie se è vero, come è vero, che siamo usciti dal primitivismo allorché abbiamo cominciato ad occuparci del dolore degli altri, e ce ne siamo fatti carico.

La storia del femore curato: la consapevolezza che non è degli umani condannare un ferito a morte certa. La cura, intesa come fatto non meramente medico ma come premura. Interesse. Empatia, appunto. È così che si diventa uomini e donne.

E dunque in questa giornata penso con più dolore all'essere madri in un'enclave in cui bambini denutriti piangono per la fame dinanzi a madri trasformate in statue di sale. E vedo un mondo che è rapidamente regredito allo stato di natura, una natura matrigna però - nulla a che vedere con la condizione primordiale di innocenza e felicità inconsapevoli - contraddistinto da indifferenza e cinismo. Un paesaggio morale da landa post-atomica.

E ieri era anche la giornata internazionale della kufiya. Cioè dell'icona che più di ogni altra è simbolo di solidarietà verso il popolo palestinese. Quella che ci rende immediatamente riconoscibili gli uni agli altri, sicché ci ritroviamo in mezzo alla folla, e, con un solo sguardo, ci comprendiamo. Sappiamo chi siamo. Parliamo una lingua comune, che è la lingua degli umani. Di chi non si arrende al "the day After" della cura. Al deserto dei sentimenti.

La indosso ogni giorno. Anche questa è una costante della mia vita.

Ieri di più. E domani, e sempre.

Fino a che non giunga l'epifania, il segno divino. Che è più vicina di quanto possa apparirci, mentre siamo scossi dal turbine della tempesta cosmica. Non è difficile pensarlo, oggi che la luna è quasi piena e la terra lo avverte.

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