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07 maggio 2025
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Taverna a Santa Chiara: uno storico analizza i fatti
di Francesco Dall'Aglio

NAPOLI - Due premesse e una riflessione (l’ho riletta e in certi passaggi sembra roba scritta da Tosa o simili, ma mi sa che è inevitabile in certe circostanze e su certi argomenti).

Le premesse:

1 - Sarebbe il caso di smetterla una volta per tutte con l’equiparazione antisionismo = antisemitismo. È un’equiparazione falsa, furba e vigliacca, per motivi che sono ovvi a chiunque sia ancora in possesso delle proprie facoltà logiche.
Il sionismo è un’idea politica, come lo era (magari, era) il fascismo: dirsi antifascisti non significa dirsi anti-italiani, e a nessun italiano, io credo, è mai venuto in mente di rispondere all’accusa di essere fascista appellandosi al pregiudizio anti-italiani, e soprattutto di vincere così il dibattito o lo scontro.
Ah, visto che la gogna mediatica pare essere diffusa e ci si deve tutelare. Inoltre, cari avvocati dei miei stivali: dove è scritto che sono antisionista (nel senso che nego la legittimità dello stato di Israele)? E se dite che sono antisemita, la denuncia ve la beccate voi.

2 - La Taverna a Santa Chiara è una colonna del centro storico di Napoli. Lo è non solo perché è uno dei pochi posti che fa ancora cucina tradizionale vera e non le porcate per turisti coi camerieri vestiti da pescatore di Posillipo, ma perché è uno dei pochi presidi di umanità e di accoglienza (mi viene in mente, naturalmente, il bar di Pino, altra oasi di quiete e bellezza) in uno dei quartieri più devastati di Napoli, in cui per gli abitanti non c’è NULLA, in cui l’assessora al turismo e il sindaco non si sono mai visti e che rientra nelle statistiche cittadine solo per i metri quadri sottratti alle abitazioni e rivenduti per b&b e ‟affitti brevi”, l’unica cosa di cui al comune di Napoli importa.
Lavoro con le associazioni locali, i produttori del territorio, slowfood e non, attività sociali tipo ospitare la campagna tesseramento di Mediterranea Napoli (ovvero gente che si occupa di ripescare i migranti in mare), aiutare le raccolte della Tienda Equosolidale per i senzatetto, collaborazione con la scuola di calcio popolare Spartak San Gennaro, eccetera.
Nives Monda, che cura e governa tavoli e cucina (insieme a Potito Izzo ai fornelli), non è la pazza dei gatti, non è una scippata da centro sociale, non è una pasionaria: è una donna che vive, lavora, lotta, crede, e non ha problemi a esprimerlo. Come dovremmo fare tutte, come dovremmo fare tutti, sempre. Ooooh, una santa, un’apostola dunque! Non penso proprio (tra l’altro su parecchie cose mi sa che saremmo pure in forte disaccordo), anzi una gran rompiscatole, ma intanto per la città, e non solo, di sicuro fa molto più di me. Quindi muto.

Queste le premesse. Questa la riflessione:

Gli storici sono dei gran rompiscatole, e non ho ancora capito se è deformazione professionale o se sono i rompiscatole che poi fanno gli storici (anche se certo condividiamo questo tratto con parecchie altre professioni, intellettuali e non). Siamo un po’ come i bimbi piccoli, che chiedono sempre ‟e perché? E perché? E perché?” finché qualcuno non ci strilla che è così e basta, non ci fidiamo mai di niente perché da qualche parte c’è di sicuro una fonte minore studiata solo da un filologo bavarese dell’inizio del 18° secolo o un codice registrato erroneamente nella biblioteca del monastero di Montecapocchione, e soprattutto vogliamo sempre andare alle origini di tutto, perché il presente è triste e non ci piace (è per questo che compatiamo i contemporaneisti, e nonostante tutto ce li portiamo appresso alle feste. Menano vita grama, bisogna capirli, pensano che tutto sia iniziato nel 1945 o, nei casi più gravi, nel 1990).

E così anche per questa storia, che non mi quadra e continua a non quadrarmi, ho deciso di tornare un po’ indietro. Non molto, che nemmeno per ogni cosa si può partire dalla caduta di Roma, ma diciamo un mesetto.

11 aprile: sui social della Taverna viene condiviso il manifesto (ancora oggi visibile ed evidente, come due giorni fa) nel quale l’esercizio annuncia la sua adesione agli ‟Spazi liberi dall’apartheid israeliana”, ovvero luoghi ‟contro l’occupazione militare e l’apartheid israeliane”. Luoghi dunque non contro Israele, non contro il popolo israeliano, non contro gli ebrei ma contro L’OCCUPAZIONE MILITARE ISRAELIANA; e ovviamente non luoghi dove ‟gli ebrei non possono entrare” o ‟non sono graditi” o ‟vanno cacciati” e altre amenità lette in giro nelle ultime 48 ore. Sei d’accordo? Bene. Non sei d’accordo? Bene. Tanto, appunto, non ti cambia niente: se entri non ti viene chiesta abiura o professione di fede, e a meno che tu non sia a favore dell’occupazione militare (non penso di doverlo di nuovo scrivere in lettere tutte maiuscole) non mi pare nemmeno che si possa essere troppo in disaccordo con la cosa. La cosa nasce e muore lì, sostanzialmente.

Per quanto ottimo ristorante (lo certifico io personalmente, che ci sono stato varie volte e l’ho sempre consigliato a chiunque mi chiedesse, e le centinaia di recensioni – nemmeno il bombing degli ultimi giorni ha abbassato la media), resta un ristorante locale, a visibilità diciamo limitata anche perché a Napoli, si sa, il turista deve mangiare o la pizza o robaccia fritta, e nessuna delle due cose la si trova qui. 12 aprile: il botto. Il locale viene recensito entusiasticamente dal Gambero Rosso, non solo per la cucina ma anche per le attività sociali. La piccola eccellenza locale diventa famosa. Il manifesto, ovviamente, sta sempre là.

12 aprile, sera (oh, nemmeno 24 ore sono passate): l’avevo detto nelle premesse, vero, che Nives è una gran rompiscatole? Pensate, lei e la sua squadra avevano avuto l’ardire di sistemare davanti al locale una panchina fatta con legno di recupero. Certo, per fare qualche coperto in più abusivamente, eh, sti napoletani, lo sappiamo come fanno. No, per far sedere la gente senza nessun obbligo di consumazione, visto che la panchina più vicina sta a Piazza Dante.

Non contenta di questo atto vandalico, ci ha pure appeso dei vasi vicino, per metterci dentro nientemeno che libri da scambiare o delle PIANTE! Ma cosa se ne fa uno di altre piante a Napoli, che come tutti sanno è la città in Europa, ma che dico, nel mondo, col più alto rapporto di verde pubblico per abitante! E per concludere, l’hanno dedicata a Giacomo Leopardi (probabilmente criptocomunista e pure gay) immaginando addirittura di farci cose tipo presentazioni di libri in strada, e una volta ci è pure venuta Vandana Shiva, l’ambientalista indiana, e i rappresentanti della comunità senegalese di Napoli per presentare il progetto di costruzione di un insediamento rurale in Africa.

Ah, ci è venuto pure Erri De Luca, uno che con il mondo ebraico ha un certo rapporto. E non gli è successo niente, nessuno lo ha cacciato o gli ha detto che non era benvenuto. Nel 2020 la commissione Beni Comuni approva la presenza della panchina, ma poi arriva la giunta Manfredi. I beni pubblici non ci piacciono più, vogliamo quelli privati, tipo duecento tavolini fin nella strada e concessioni in deroga a ogni legge pur di alzare due lire in più dai ristoratori, che ovviamente non si fanno pregare.

Insomma, 'sta panchina rompeva le scatole. A tarda sera del 12 (era sabato) arriva la polizia municipale a ispezionare il locale. Nulla di irregolare all’interno (ah, 'sti napoletani), ma all’esterno, eccola, la panchina! Occupazione abusiva di suolo pubblico, multa di 121 euri. Nives e Potito, ovviamente, pagano. Nient'affatto. Fanno ricorso e fanno un bel po’ di casino, spalleggiati dalla gente del quartiere che considera quella panchina roba sua.

Arrivano Fanpage e Napolitoday, ai quali entrambi confidano i loro pensieri sull’argomento. ‟La panchina” dice Nives ‟nasce proprio come denuncia della mercificazione dello spazio pubblico. Una cosa che sicuramente è l’opposto di un tavolino dove si consuma a pagamento viene poi multata come un tavolino […] la visione liberista che questa giunta ha della città ci sta secondo me portando a un triste epilogo. Il primo è che si espellono gli abitanti, ma soprattutto i poveri; aumenta la pressione sociale; è molto miope pensare che una città come Napoli si possa governare agendo per il decoro […] la panchina resta al suo posto […] la speculazione è una forma di gestione della città che evidentemente a questa giunta risulta più congeniale”.

Ahia. Qua il problema non è il manifesto (che sta sempre là). Il problema è ben altro.

26 aprile: questa notizia è venuta fuori ieri ma si riferisce appunto a questa data. L’associazione ‟Donne in nero” di Bari ogni sabato, da venti mesi, manifesta silenziosamente a favore della Palestina, vestiti a lutto. In quell’occasione, riporta la portavoce, la stessa donna che poi entrerà alla Taverna il 3, ‟si è fermata e ha iniziato a inveire contro di noi a voce alta e con toni sempre più accesi, accusandoci di terrorismo e antisemitismo” mentre il marito filmava la scena ‟soffermandosi in particolare sui volti delle partecipanti”.

Le donne in nero, fedeli alla loro idea, non hanno minimamente risposto. ‟L'episodio è durato alcuni minuti, in un crescendo di toni e parole. La Digos è stata informata telefonicamente in tempo reale. Un passante sconosciuto si è avvicinato alla coppia chiedendo di smettere e, poco dopo, Fabio Losito, molto spesso al nostro fianco, che era seduto sulla gradinata, vista la veemenza crescente della contestazione, si è alzato per intimare ai due di andarsene e di lasciare esprimere liberamente il presidio che era perfettamente autorizzato e completamente pacifico. La coppia si è allontanata mentre la donna continuava a urlare in inglese”. La versione della donna, ovviamente, è diametralmente opposta ma pare che il vizio di tirar fuori il cellulare e di riprendere le facce della gente sia recidivo.

3 maggio: sapete cosa succede (oddio, non lo so se lo sapete: il video è disponibile e lo si trova ovunque, ma pure leggo cose strane. Va bene non sapere interpretare i testi, ma le immagini è più grave). La cosa interessante succede dopo: i due allertano non tanto la polizia, ma il Mattino, nella persona di Antonio Crimaldi che scrive un paio di articoli il giorno dopo, entrambi con titoli un po' fuorvianti: ‟Via dal nostro ristorante: famiglia di Israele cacciata a Napoli (nota bene: ‟famiglia”, non coppia. Quei poveri bambini!!!) e ‟Turisti cacciati da Napoli ‟perché ebrei”: il caso finisce in Procura” .

Dagli articoli apprendiamo che l’assessora comunale al turismo, Teresa Armato, ha incontrato la coppia alla quale ha offerto caffè e sfogliatelle (coi soldi, immagino, miei e dei miei concittadini, non penso di tasca sua), ha incassato la solidarietà del sindaco, che come abbiamo visto pochi giorni prima era stato ben criticato dai nostri, e la sera l’Associazione Italia-Israele di Napoli li ha portati a cena (stavolta a spese dell’Associazione) ‟nella storica pizzeria Vanvitelli” che tanto storica non è, ma lasciamo stare. Il presidente onorario dell’Associazione, se siete curiosi di saperlo, altri non è che Crimaldi stesso. Tutto lecito e legittimo, e ci mancherebbe.

Ma quindi, mi chiederete, tu stai dicendo che questi hanno organizzato il trappolone perché Nives rompe le scatole all’amministrazione comunale ed è apertamente schierata per la Palestina? Eh no, cari miei. Io non dico niente e me ne guardo bene, che sono ancora incensurato e ci terrei a restarlo. Io ho messo in ordine cronologico gli eventi e ho cercato collegamenti che altri non avevano notato, che è il mio lavoro. Altri facciano il loro.

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