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Siria: resistere non basta. Rischio stato fallito nel cuore del Levante
di Leandro Leggeri
Nel suo articolo dal titolo "Israel wants to break up Syria. But faith, history and resistance will defeat it", pubblicato su Middle East Eye, la studiosa e commentatrice politica Soumaya Ghannoushi propone un’analisi penetrante del ruolo svolto da Israele nel conflitto siriano e, più in generale, nel contesto geopolitico mediorientale.
Secondo l’autrice, l’obiettivo non dichiarato ma costantemente perseguito dallo Stato ebraico è quello di smantellare la Siria come entità statale coesa, sfruttando le fratture etniche, religiose e politiche per favorire uno scenario di frammentazione permanente.
Ghannoushi ripercorre le radici storiche dell’interventismo israeliano, collocandolo nel solco di una strategia di lungo periodo volta a neutralizzare qualsiasi potenziale minaccia alla supremazia israeliana nella regione. In questa visione, la Siria rappresenta – nonostante le sue ferite e debolezze – un simbolo di resistenza e di rifiuto dell’egemonia straniera, un bastione ideologico e geografico da disinnescare.
L’autrice insiste sulla forza della società siriana, sulla sua capacità di resistere alle ingerenze esterne attraverso l’unità interconfessionale, la memoria storica e un’identità nazionale condivisa. È proprio in questa forza – morale, religiosa e culturale – che Ghannoushi individua la chiave per la futura rinascita della Siria e per la sconfitta dei progetti di frammentazione.
Eppure, è proprio su questo punto che la sua analisi appare eccessivamente ottimistica.
Pur condividendo gran parte della sua ricostruzione, è difficile oggi intravedere un percorso realistico verso il mantenimento dell’integrità territoriale e istituzionale della Siria.
Dopo oltre un decennio di guerra, la realtà sul campo racconta una nazione devastata e profondamente divisa. Nonostante i proclami ufficiali di cambiamento e la retorica sulla ricostruzione promossa dal governo di Ahmed al-Sharaa, succeduto ad Assad, la Siria continua a versare in una condizione di profonda instabilità e frammentazione. Le istituzioni sono al collasso e il controllo del territorio è ancora completamente frammentato. Dopo la caduta del regime e il conseguente scioglimento dell’esercito governativo, gran parte del paese è passata sotto il controllo di Hayat Tahrir al-Sham, che ha consolidato la propria presenza soprattutto nel nord-ovest, mentre il Nord-Est è gestito dalle forze curde.
La fascia costiera, un tempo centro nevralgico del potere, è oggi attraversata da insurrezioni popolari e scontri intermittenti: in alcune aree, gruppi lealisti pro-Assad hanno lanciato attacchi contro le forze di sicurezza del nuovo governo, provocando centinaia di vittime e migliaia di sfollati. A complicare ulteriormente il quadro, cellule legate all'ISIS hanno ripreso i combattimenti in diverse regioni periferiche, approfittando del vuoto di sicurezza per riorganizzarsi e colpire obiettivi civili e militari. Solo nel 2025 si contano oltre 60 attacchi riconducibili all’organizzazione, con numerose vittime tra la popolazione e le forze curde.
Sul fronte militare, l’avanzata di Israele ha avuto un impatto devastante: oltre l’80% dell’arsenale siriano è stato distrutto in una campagna sistematica che ha lasciato il paese praticamente privo di difese.
La crisi umanitaria continua ad aggravarsi, mentre la repressione politica rimane endemica. Le violazioni sistematiche dei diritti umani – documentate da numerosi rapporti internazionali – e le persistenti violenze settarie alimentano tensioni e paure trasversali.
In alcune regioni si registrano episodi sempre più gravi di persecuzione e intimidazione verso le comunità minoritarie, in particolare alawiti e drusi: donne alawite sono state rapite e uccise da gruppi jihadisti in quella che molti osservatori definiscono una vera e propria “vendetta settaria”, mentre lungo la costa si moltiplicano le testimonianze di massacri e rappresaglie contro civili alawiti, tanto da spingere Amnesty International a invocare indagini per crimini di guerra.
Parallelamente, la leadership drusa, attraverso la voce del religioso Hikmat al-Hajri, ha denunciato pubblicamente le violenze in atto e dichiarato la volontà della comunità di sganciarsi dal governo centrale per tutelare la propria sicurezza. Un segnale allarmante che potrebbe preludere a nuovi esodi di massa e all’ulteriore frammentazione del tessuto sociale siriano.
In questo scenario, la Siria rischia di scivolare definitivamente nel paradigma dello “Stato fallito”: un’entità statale nominale, ma priva di controllo effettivo, governata da interessi contrapposti e soggetta a continue ingerenze esterne. Una Siria in frantumi, senza istituzioni credibili né un progetto nazionale condiviso, potrebbe trasformarsi in un fertile terreno per la rinascita di gruppi estremisti, per la proliferazione del crimine organizzato e per il perpetuarsi di conflitti a bassa intensità.
Il rischio, quindi, è che la retorica della “resistenza” – per quanto comprensibile e legittima – finisca per mascherare il vuoto politico e istituzionale che minaccia di inghiottire il paese. La vera sfida non è solo respingere le ingerenze esterne, ma costruire un nuovo contratto sociale, capace di includere tutte le componenti della società siriana e garantire diritti, giustizia e dignità.
Senza questo passaggio fondamentale, la Siria continuerà a essere non una roccaforte di resistenza, ma un’area grigia del Levante: instabile, frammentata e pericolosamente vicina al collasso definitivo.
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