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27 aprile 2025
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Partigiani e fascisti non sono uguali
di Rinaldo Battaglia *

Un giorno un giovane scrisse in poche righe l’essenza della nostra guerra civile o, se preferite, meglio della Resistenza: “Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, che di queste non ce ne sono”.

Quel giovane si chiamava Italo Calvino e all’8 settembre ‘43 non aveva ancora 20 anni, pochi mesi dopo per sfuggire alla leva di Graziani del 15 ottobre ’43 e non esser arruolato con la forza nei ranghi della Repubblica di Salò salì in collina e divenne partigiano, tra il basso Piemonte e la Liguria. Le sue parole pertanto vengono dal di dentro, non per aver sentito dire, e rappresentano la differenza tra l’esser stato partigiano e l’esser stato fascista, dopo l‘8 settembre 1943. Perché le due cose erano e sono tuttora all’opposto, una escludeva l’altra, anzi una combatteva l’altra per rimanere viva. Perché sin da subito, pochi pochissimi giorni dopo l’8 settembre, quella differenza fu chiara a chi voleva vedere e capire.

La prima testimonianza, dopo l’8 settembre, la si ebbe a Boves, nel cuneese.

Ancora in Piemonte, ancora dalle parti dove anche il giovane Calvino opererà solo 4 mesi dopo. I soldati italiani allora erano totalmente allo sbando, esisteva la regola non scritta del “si salvi chi può”, bene espressa da Badoglio e dal Re qualche giorno prima. I fascisti che volevano continuare a essere fedeli al Duce non avevano ancora le idee chiare: Mussolini era appena stato liberato ma per l’organizzazione e la nascita ufficiale della RSI dovevano attendere ancora il giorno 23 settembre, quando il Duce si prostrò al Fuhrer, accoppiando i suoi fascisti coi nazisti dell’altro. Nazisti che invece erano già bene istruiti e preparati dal piano Achse (o “Alarico” nella derivazione italica) e poterono approfittare con facilità dell’anarchia disorganizzata del momento.

Ma la testimonianza di Boves mostrò a tutti quali erano le regole del gioco. Solo nella prima giornata del 19 settembre ‘43 a pagarne il conto e a essere uccisi furono ben 23 innocenti, semplici civili, contadini con le loro famiglie per lo più.

Seguirà mesi dopo (il 31 dicembre) una seconda fase con un ferocissimo rastrellamento eseguito da tedeschi e fascisti sui civili di Boves, con altri 59 vittime. Ma oramai l’eccidio di San Silvestro non faceva più notizia, oramai era chiaro il modus operandi degli uomini del Duce e del Fuhrer in Italia. Il 19 settembre ‘43 invece non ancora, si era vergini, si rimaneva ingenui, non si era capito bene cos’era il nazi-fascismo in Italia. A Boves lo pagarono bene. Boves ne è una testimonianza precisa e fonte di scuola.

Nel paese di Boves un gruppo di ex-soldati del Regio esercito, con riferimento nel sottotenente Ignazio Vian, costituirono già nella prima settimana dopo l’8 settembre una delle prime formazioni partigiane italiane, rifugiandosi sulle colline della zona.

La domenica successiva, il 19 settembre, alcuni di loro scesero in paese per fare provviste e, quasi senza volerlo, si scontrarono con tre soldati nazisti della divisione S.S. Leibstandarte “Adolf Hitler”, appena arrivata sul luogo e probabilmente inesperti del territorio. Chi inesperti del territorio e chi, i partigiani, inesperti di cosa volesse dire la parola guerra civile.

Due tedeschi vennero subito presi, catturati e portati in collina, ma il terzo venne ucciso nello scontro a fuoco (dove morirà anche il partigiano “Burlando”) e, strada facendo, il suo corpo venne abbandonato lungo la strada dagli altri due prigionieri.

Per i nazisti, appena giunti, era una affronto.

Il Kommandant delle S.S., lo Sturmbannführer Joachim Peiper, fece così occupare il paese di Boves. Chiamarono subito a rapporto il parroco don Giuseppe Bernardi e, mancando quel giorno il commissario della prefettura o qualche altro funzionario statale, un “anziano” del paese, Antonio Vassallo, un industriale molto stimato da suoi concittadini. Il messaggio fu chiaro: andate dai banditi e chiedete la liberazione immediata dei prigionieri tedeschi. Altrimenti sarà subito rappresaglia sul paese.

Don Giuseppe chiese al comandante Peiper di mettere per iscritto che se i due tedeschi fossero stati liberati non ci sarebbe stata nessuna violenza di nessun tipo.

«Non c’è ne bisogno, la parola di un tedesco vale più di cento firme di italiani», questa la risposta ricevuta e probabilmente figlia di come si era comportata l’Italia per i tedeschi, con l’8 settembre e col tradimento del matrimonio stipulato nel Patto d’Acciaio. Don Giuseppe e Antonio Vassallo quindi partirono in un’auto con tanto di bandiera bianca, bene in vista. Passarono alcuni check-point dei nazisti, fino ad arrivare nella zona in cui operavano come base i partigiani di Ignazio Vian.

La trattativa non fu facile, come è ovvio. Ma la paura della rappresaglia sui civili di Boves alla fine convinse i partigiani, che consegnarono al parroco i prigionieri con tutta l’attrezzatura e anche la loro macchina, indicando anche il luogo dove era stato lasciato il terzo tedesco, quello ucciso nello scontro a fuoco. Che nel viaggio di ritorno fu raccolto.

Per don Giuseppe la missione era conclusa positivamente. Quanto richiesto dalle S.S. era stato realizzato, con difficoltà, ma raggiunto. Ma la guerra è guerra e quella civile e d’invasione ancora peggio.

Mai fidarsi dei nazi-fascisti. Molti civili di Boves lo avevano capito e alcuni, magari quelli senza lì famiglia, cercarono lo salvezza prima del ritorno di don Giuseppe. Ma gli altri i vecchi, le donne e i bambini, no.

Le S.S. incendiarono il paese, bruciarono oltre 350 case e uccisero a sangue freddo 25 persone compresi il parroco don Bernardi e Vassallo i quali, poi risulterà, vennero bruciati vivi. Anche l’altro giovane prete, don Mario Ghibaudo di soli 23 anni, venne ucciso mentre cercava di aiutare i più vecchi e i bambini a fuggire.

Testimoni diranno più precisamente che gli fu sparato mentre stava dando l’assoluzione a un anziano morente, perché colpito da un tedesco. Mesi dopo in zona torneranno ancora i nazisti, sempre poi con i fascisti di Salò a far compagnia e guida.

Sarà una delle zone più violentate e dove meglio di altre si capì la differenza tra fascismo e antifascismo.

A guerra finita Joachim Peiper verrà condannato a morte per crimini di guerra, avendo giustiziato 80 prigionieri americani a Malmedyin Belgio durante l’offensiva delle Ardenne di fine ‘44.

Ma la sentenza venne prima commutata in carcere a vita e poi con un’amnistia, una delle tante, venne rilasciato già nel 1956. Si trasferì in Francia, in Borgogna, nella cittadina di Traves sotto il falso nome di Rainer Buschmann. Tuttavia, venne riconosciuto e denunciato da alcuni giornalisti finché il 13 luglio 1976 la sua casa venne incendiata a colpi di bombe molotov da ex partigiani francesi, mai identificati.

Il superiore di Peiper, il generale delle S.S.Theo-Helmut Lieb fece invece solo due anni di prigione e fu liberato già nel 1947. Che Dio ci perdoni per non avere raccolto la testimonianza di Boves e non avere imparato, come sembra, nulla da allora. Partigiani e fascisti non sono uguali, non possono essere parificati.

È la Storia del nostro paese a dirlo, prima e dopo il 25 Aprile ‘45. Si può anche non riconoscere l’importanza storica e morale del 25 Aprile, si può quel giorno anche andare al mare con la famiglia, si può non far cantare 'per sobrietà' Bella Ciao, ma il crimine del fascismo di Mussolini non può essere dimenticato o parificato a chi lo sconfisse, contribuendo in maniera significativa alla liberazione da quel regime illiberale, liberticida, criminale (il 4 marzo 1948 la War Crimes Commission dell'ONU giudicò 1.283 fascisti italiani quali criminali di guerra).

Anche se oggi in Italia molti non lo sanno e volutamente lo ignorano. Ma come diceva Milan Kundera: 'ognuno è responsabile di quello che ignora'. 27 aprile 2025 – 80 anni dopo - Liberamente tratto dal mio ‘Il tempo che torna indietro – Terza Parte” - Amazon – 2024

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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