Abbiamo permesso un genocidio
di Nevio Gambula

Gaza è una distesa di macerie. Quello che in pochi osavano vedere – e descrivere – diviene oggi, dopo la tregua, visibile a tutti, come se si fosse scoperchiato l’orrore; appena si è aperta la vista, subito è comparso l’esito di quella che non è stata una guerra, ma una battuta di caccia.

Ogni rovina che appare è lo scandalo di chi, in questi mesi, si è vantato di tollerare la distruzione, pure di sollecitarla, ed è lo schifo di chi ha continuato la propria vita come se quell’angolo di mondo si meritasse il castigo, e che perfino si è reso indifferente a un genocidio.

Vivere – scrive Cioran – è sapersi indignare … Se ci poniamo al di là di ogni indignazione, se troviamo sopportabile il più orribile crimine contro un popolo, se accettiamo l’esito di una perversa tendenza allo sterminio, ci sistemiamo ai margini della maturità; significa che ci costringiamo a vivere nell’adolescenza dell’umanità, in quell’età priva di saggezza che non ci permette di uscire da noi stessi per abbracciare la “comune umanità”.

Significa volersi muovere al contrario, come per tornare a una vita primordiale, priva di diritto e di giustizia.

Se a Gaza si è manifestata la violenza bruta della potenza occupante, qui da noi abbiamo assistito a quella che è stata giustamente definita come una «catastrofe intellettuale e morale». Le rovine su cui si apre la vista sono perciò scabrose: ci sbattono in faccia il nostro fallimento, in primis di noi occidentali, di noi che potevamo fermare la violenza vendicativa di Israele, ma che invece abbiamo lasciato che si dispiegasse in tutta la sua crudeltà. Noi abbiamo permesso un genocidio, proprio.

Ma questa nostra autorizzazione – o, almeno, sopportazione – non è il sintomo di una perdita di umanità? Come possiamo non indignarci di noi stessi?

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