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08 aprile 2024
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Il posto delle capre: una famiglia ai tempi del nazismo
di Rinaldo Battaglia *

In questi giorni di inizio aprile, nel 2012, un’importante storica della mia terra, ricercatrice presso l’Università Cà Foscari, in quel tempo anche “Consigliere presso Jewish Community of Padua” quale Sara Parenzo, uscì con un libro molto toccante sulla 'Shoah di casa nostra', su quel tremendo crimine che aveva fortemente colpito la sua famiglia.

Raccontò i ricordi della madre Lisetta sin dal tempo in cui i suoi genitori e nonni, ebrei russi, scapparono ancora alla fine del secolo precedente, dai pogrom antiebraici che colpirono Grodno e la zona di Odessa, loro città natale. E arrivarono in fuga disperata a Padova, dove si ricostruirono una vita. Ma poi ecco la Shoah - come un incubo - a spazzare via tutti i sogni di quella vita e la vita medesima. La nonna dell’autrice, Ada Ancona (originaria di Trieste invece e italianissima) e la piccola zia Sarà Gesess (da cui la nipote ha ripreso il nome) si fermeranno ad Auschwitz il 4 agosto 1944, il nonno Elia nel lager di Dachau (mai conosciuto nemmeno la data della morte, si dice ma non bene documentato il 15 febbraio 1945 a neanche 46 anni).

Raccontò per primo di come il 30 settembre 1943, per la festività di Rosh Ha-Shanà, il Capodanno ebraico, a Padova la famiglia si salutò dandosi uno ‘straziante ultimo addio’. Avrebbero tutti preso strade diverse per non cadere vittime dell’odio nazifascista, che solo due settimane dopo, a Roma, avrebbe mostrato il suo vero volto anche in Italia.

“Il giorno dopo, la mia mamma che aspettava un altro bambino, Renato e il piccolo Robi, con l’aiuto di un grande eroe sconosciuto, il Maggiore dei Carabinieri Alberto Vasio collegato con i partigiani di Otello Pighin, dovettero decidersi a lasciarli. Si andarono a rifugiare sul Monte Grappa, sopra Bassano, in una località chiamata Val Rovina, dove era stato trovato per loro un nascondiglio, in una stalla di contadini che non seppero mai che erano ebrei. […]. Invano la mamma aveva supplicato i suoi genitori di andare con loro, disperatamente li aveva invocati di darle almeno la bambina. […].” Quel rifugio per la mamma Lisetta e il marito Renato Parenzo diventerà la loro salvezza, sebbene in una stalla, sebbene vicino alle capre, e per sempre ringrazieranno chi ha permesso loro quel posto che darà il titolo al libro in questione (‘Il posto delle capre’ - Cierre edizioni - Sommacampagna 2012 poi ristampato 2020).

“Al momento di lasciarsi – proseguì Sara riprendendo le memorie della madre Lisetta - abbracciandola, la nonna Ada le aveva detto: «Se questo bambino sarà un maschietto, vorrei tu lo chiamassi Sandro». E il 20 maggio 1944, all’Ospedale di Bassano del Grappa, nacque Sandro, il mio secondo fratellino. Era scesa a piedi dai monti, la mia mamma, per far nascere quel bambino; non aveva il pancione grande come quello che le impedì di ballare il capodanno del ’42, c’era poco da mangiare in quella stalla («voi non sapete cos’è la fame») e l’inverno lassù era stato tanto freddo. Non ce la faceva a nascere da solo, il povero Sandrino. La mamma si recò all’Ospedale di Bassano dove la prima persona che incontrò fu il professor Palmieri, primario ostetrico, amico della famiglia Cavagnis, che la conosceva bene. «Ma sei pazza?» le disse quando la vide. La immagino, lei, col suo bambino che voleva nascere e i suoi ventidue anni e un fazzolettino in testa per sembrare una contadina. «Ma sei pazza? Cosa fai qui? Non lo sai che i tuoi li hanno presi tutti?».

Quella scarica di corrente elettrica che la trapassò e la incenerì e modificò ogni sua cellula per sempre, mi pare di percepirla ancora, perché ce la descrisse un numero infinito di volte. «Così mi disse proprio “Ma sei pazza? Ma non sai che i tuoi li hanno presi tutti.”». Li hanno presi tutti.

Questa era solitamente la realtà degli ebrei disperati in fuga verso la Svizzera - l’unica via di salvezza possibile - che cadevano con facilità nelle mani di ‘commercianti di carne umana’. A Padova tutto ruotava attorno a Mauro Grini, ebreo e fascista. Il diavolo e l’acqua santa. Li hanno presi tutti dopo che avevano pagato il loro ‘lasciapassare’, ma poi qualcuno ha voluto ‘rivenderli’ nuovamente facendo doppio business. E i prezzi erano vantaggiosi sul mercato (5.000 lire un uomo, 3.000 una donna, 1.500 un bambino quando un operaio in quel tempo prendeva quando andava bene 200/250 lire al mese).

Li hanno presi tutti a Tirano, al confine con la Svizzera, il 16 dicembre 1943, quando, dopo che il 30 di novembre con la criminale ordinanza n. 5 Benito Mussolini - a firma Guido Buffarini Guidi il suo ministro degli Interni - aveva ordinato la cattura e la deportazione nei campi di concentramento (fascisti soprattutto) di tutti gli ebrei sul suolo 'della Patria', e ovviamente il sequestro e poi la confisca di tutti i loro beni, in modo tale che i lupi affamati della RSI, con la bava alla bocca, potessero poi dividersi il 'pasto', peggio delle vesti di Gesù sul Golgota.

«Mio papà (Elia Gesess, il nonno dell’autrice) aveva già passato il confine, ma i tedeschi fermarono mia madre e mia sorella, e lui tornò indietro e disse “Prendete me e lasciate la bambina”. E li hanno presi tutti». Li presero a seguito di una delazione: la direttrice del negozio di Padova, M. B., cui mio nonno aveva dato tutta la sua fiducia e le doppie chiavi della cassetta di sicurezza della Banca di Lione dove, in tempi migliori aveva depositato i suoi risparmi, li aveva denunciati. Quando mia madre andò a Lione dopo la guerra […], la cassetta era stata già aperta e svuotata”. Aveva fatto un affare quella direttrice, chissà quanto le sarà spettato e se si sarà goduto quei 30 sporchi denari.

Raccontò di come la madre, tornata in Val Rovina, con il suo Sandrino in braccio e il cuore a pezzi, trovò il figlioletto Robi “che l’aspettava disperato saltando in piedi sul lettino, aggrappato con le manine alle sbarre chiamandola “mamma!”. Me lo ricordo ancora con la sua boccona spalancata che mi chiamava». Per loro trovò la forza di continuare a vivere. «Ma faceva freddo su quei monti, non avevo latte e Sandrino era tanto piccolo e per scaldarlo dovevo legarlo tutto stretto stretto con delle fasce”.

Per cercare qualcosa per coprire dal freddo il piccolino, in vista anche dell’inverno, la madre Lisetta decise di ritornare a Padova, da conoscenti fidati. Quel viaggio e quella data le resteranno impressi per sempre nella mente: a Bassano avevano appena impiccato 31 giovani del Grappa, presi a tradimento ‘nell’operazione Piave’ dai nazisti delle S.S. e dai fanatici fascisti della M Tagliamento (dove c’era anche il giovane Giorgio Albertazzi). Avevano tutti le mani legate dietro alla schiena e un cartello sul petto con scritto ‘bandito’.

Ma nella sua vecchia casa di Padova, qualcuno la tradì, “quando era già fuori per strada e si sentiva in salvo con in mano le preziose coperte per i suoi piccoli, arrivò la milizia repubblichina e le chiese nome e documenti. «Voi non sapete cos’è la paura. Documenti non ne avevo e di tutti i nomi che avrei potuto dire me ne venne in mente solo uno, Vigevani, che era il nome ebreo più ebreo di tutti i nomi ebrei che avrei potuto trovare». La arrestarono e la portarono al Comando dei Carabinieri”. Voi non sapete cos’è la paura”.

Mamma Lisetta e il suo bambino, aspettarono per ore e ore, perdendo oramai ogni speranza. Ma in quel tempo di fascisti e criminali, di carabinieri che dirigevano i peggiori campi di concentramento e di eroi in divisa come Salvo D’Aquisto, non tutti erano uguali. In Caserma arrivò un uomo – di cui mai nessuno di loro saprà il nome – di certo uno di potere e di idonea autorità. Forse un fascista di alto rango, forse un ufficiale dei Carabinieri. «Me ne occupo io di questa donna» disse e accompagnò Lisetta ed il bambino all’uscita e fece in modo che nessuno li bloccasse più lungo la strada. E la mamma ritornò così in Val Rovina, nel posto delle capre.

Ma non era ancora finita la sofferenza. “Nella stalla di Val Rovina avevano portato con sé anche la zia Ada, una zia di Renato che lo aveva cresciuto da quando aveva perduto la mamma. Forte, energica, dura come il granito, dama della Croce Rossa, era stata di grande aiuto a mia madre nei primi tempi lassù; ma poi si ammalò gravemente, non volle andare all’Ospedale di Bassano per paura che la riconoscessero e risalissero a tutti loro, e morì tragicamente in un mare di sofferenza. Si cominciò allora a mormorare in giro per il paese che quella strana famiglia di sfollati non aveva fatto un funerale cattolico. La situazione era diventata pericolosa, i contadini sospettavano. «Voi non conoscete i contadini». Da qui bisognava andarsene: era il dicembre del 1944, si sentirono perduti”.

Ma ancora una volta non tutti furono uguali. Non tutti furono animali, peggio delle capre di quella stalla. “Un amico, venuto a conoscenza di quel loro vagare disperato, Bepi Gerolimetto, un ragazzo di venticinque anni, veterinario, appassionato di cavalli da corsa, li salvò, offrendo loro un nascondiglio nella sua grande casa patriarcale a Cusinati di Rosà, sulla strada che porta a Bassano. Rischiava la vita sua e di tutta la sua famiglia, di sua madre, dei suoi fratelli, delle sue sorelle e di tutti i suoi nipoti. Ma a nessuno di loro disse mai che erano ebrei. Rimasero lì fino quasi all’estate del ’45”.

Mamma Lisetta, col marito Renato Parenzo e i loro bambini così si salverà e andrà a vivere nel dopoguerra a Ponte di Brenta, fuori Padova, anche se – ricorda la figlia Sara, che nascerà solo nel 1947 – avendo saputo con certezza “che i suoi erano morti tutti, era interamente vestita di nero ed era distrutta dal dolore”.

Ma i legami di affetto e riconoscenza con la famiglia Gerolimetto non scompariranno. Molti anni dopo, 60 anni dopo la fine della guerra, Sara Parenzo ebbe modo di rivedere una nipote di Bepi Gerolimetto, Betti Pieropan, “che allora aveva solo dieci anni ed era sfollata Iì anche lei, nella casa di Cusinati. «Ero piccola, andavo ancora alle elementari, ma me li ricordo vividamente», le disse, «Sandrino di pochi mesi e Robertino che era tanto piccolo anche lui, e tuo papà che la domenica andava alla messa con gli altri per non destare sospetti, e la tua mamma, bellissima e altera, che a messa non volle andarci mai”. E si abbracciarono per ore e ore.

Da anni è in atto in Italia una campagna sotterranea, anche manovrata da una certa politica, di “parificare per purificare” nascondendo i crimini di molti italiani, durante la Shoah ‘di casa nostra’. E siccome non è facile alzare chi si macchiò di orrende colpe, si tengono abbassate, quindi sconosciute, anche le scelte di chi si sacrificò per salvare altre vite umane. A proprio rischio e pericolo.

Molti oggi si riempiono la bocca col concetto del 'merito'. Giusto ed educativo. Ma poi dedichiamo vie a Giorgio Almirante e non celebriamo molti ‘salvatori’. Nel caso della mamma di Sara Parenzo, la sorella della piccola Sara Gesess, come possiamo parificare la condotta della direttrice del negozio di Padova, M. B. (meglio non sapere chi si nascondeva sotto quelle iniziali) con quella del Maggiore dei Carabinieri Alberto Vasio (nel 2012 sarà a Padova insignito col titolo di ‘Giusto tra le nazioni’ dallo Yad Vashem) e del suo ‘amico’ Otello Pighin (il partigiano ‘Renato’ e non fu un caso che mamma Ada volesse che il futuro nipotino, che mai vedrà, si chiamasse con quel nome – morirà ucciso dalla Bandà Carità il 9 gennaio 1945 ad Abano Terme dopo esser stato ‘vittima ‘ di un tradimento o di un’imboscata due giorni prima sempre ad Abano) o della famiglia di Bepi Gerolimetto di Cusinati di Rosà? O del 'fantasma' anonimo che in Caserma salvò la donna ed il piccolo figlio? E non ultimo, l’altrettanto anonimo proprietario di quel posto delle capre che ha permesso di salvare quelle vite?

Sono passati 80 anni ma chi si è comportato male non merita di essere parificato a chi ha sacrificato la sua vita per far sopravvivere gli altri. Si chiama merito, il resto è spazzatura ignobile e propaganda politica. E talvolta anche danno cattivo odore. Persino le capre nel loro posto generano più profumo.

8 aprile 2024 – 12 anni dopo

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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