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Un sasso contro il pensiero uniforme
di
Rossella Ahmad
Penso alla foto più iconica del più grande intellettuale palestinese, Edward Said, quella che lo immortala mentre, compassato professore di letteratura alla Columbia University, lancia un sasso contro una postazione israeliana al confine appena liberato del Libano del sud. Il sasso "intifadico", così lo definì sprezzantemente Giovanni Sartori.
Per quella foto, ricevette minacce ed intimidazioni, fu denunciato alla Columbia dalla Anti Defamation League, la potente lobby sionista nord-americana, ne ottenne in realtà il sostegno, in un momento storico in cui le istituzioni accademiche conservavano una parvenza di integrità.
È una foto che merita di essere approfondita nel suo simbolismo. Said, malato ed ormai prossimo alla morte, indirizza quel sasso non già contro lo stato che aveva devastato la sua vita e la sua famiglia - da Gerusalemme a New York, profugo più volte e compendio di tutte le anime laiche e religiose arabo/mediorientali - ma contro il mondo a cui lui stesso apparteneva, azzoppato, accecato e silenziato: quello della cultura, inerte di fronte alla più grave ingiustizia storica del secolo scorso.
Ne abbiamo parlato spesso. Gli intellettuali ed il loro "mainstream responsabile", così lo definiva Said. Quello che ti fa allontanare istantaneamente da una questione che tu sai essere giusta e che però può allenarti dal "board di qualche prestigioso comitato", o semplicemente farti perdere la patente faticosamente conquistata di "obiettivo", "moderato", "equilibrato".
I capelli spaccati in quattro nel vano tentativo di far quadrare il cerchio. Gli equilibrismi precari, quando non si tratti di disinteresse puro e semplice. Il quieto vivere, il "chi me lo fa fare". L'ambizione di sedere nel club dei politicamente corretti.
Il sasso di Said voleva scuotere quel mondo, "neutralizzato" - in pratica addomesticato - dalla internalizzazione di tali attitudini mentali.
Era indirizzato in realtà ai suoi colleghi accademici, agli scrittori ed ai poeti. Al mondo dell'arte, un monolite zeppo di fili scoperti. Un microcosmo ripiegatosi su se stesso - una sorta di arte privata, quasi un mestiere - che, così facendo, perde la sua funzione primaria, che è quella di controbattere all'autorità e farsi portavoce dei senza voce. Costruire l'immaginario collettivo, o contribuire a farlo.
E tale è stato il comportamento degli intellettuali di fronte al genocidio di Gaza. Molti i silenzi, molti i cerchiobottismi, innumerevoli le prese di distanza. Edward Said non è mai stato così lontano e dimenticato.
Sul mondo accademico e sul rifiuto da parte degli atenei europei di boicottare le istituzioni culturali israeliane, mi pronuncio attraverso le parole di Maya Wind: "Le università sono complici: hanno impedito la ricerca critica sul 1948. Gli israeliani sono ignoranti sulla Nakba, quindi cosa gli impedisce di compierne un’altra?».
E ancora: "Quando Israele prende di mira intenzionalmente il sistema educativo palestinese, bombardando le università a Gaza o facendo implodere gli edifici ormai vuoti, quando chiaramente non si tratta di un incidente ma di uno scolastidicio intenzionale, nessuna università in Europa dice nulla. Perché stanno proteggendo il loro stesso colonialismo. Criminalizzare o reprimere i propri studenti è prima di tutto una forma di protezione di se stessi, prima che di Israele».
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