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Antisemita accusa da querela
di
Nevio Gambula
Se qualcuno mi accusa di antisemitismo, io non ho dubbi: lo querelo. Trattandosi di un’accusa infamante, l’autore ne dovrà rispondere davanti a un giudice e dovrà, in quella sede, indicare i passi in cui mi scaglio contro gli ebrei in quanto tali e non contro l’operato politico-militare di Israele. Di fronte a un’accusa del genere, non bisognerebbe limitarsi alla riprovazione; essendo nefasta per il discorso critico, dovrebbe essere immediatamente denunciata.
Io non sopporto l’uso smodato, e spesso fuori luogo, di alcuni concetti. E questo perché si finisce spesso, anche con le migliori intenzioni, col sviluppare discorsi ambigui e che contraddicono le intenzioni. Parlare di “entità sionista”, per esempio, o di “razzismo ebraico” in riferimento all’operato di Israele, mi sembra fondamentalmente sbagliato e non immune dal rischio di cadere nella trappola dell’antisemitismo. L’indignazione è sacrosanta, ma nulla di ciò che usiamo per esprimerla è neutro.
Il problema è, per così dire, di etica del parlante. Ora, io non mi sono mai interessato di ebraismo e di storia degli ebrei, e non ho mai approfondito la questione del sionismo, se non dal punto di vista dell’impatto che ha avuto sulla Nakba palestinese e sulle forme coloniali adottate da Israele nei territori occupati. Ho letto diversi studi sulla questione, ma non al punto tale da permettermi di entrare nello specifico. È dunque spontaneo, per me, approcciarmi alla “questione palestinese” da altri punti di vista, maggiormente legati alle pratiche coloniali concrete.
Ma non è solo una questione di ignoranza personale. Per l’idea che mi sono fatto sull’evento-Gaza, l’ebraismo e il sionismo sono questioni di secondaria importanza, più attinenti alla sfera ideologica che a quella delle cause profonde. Gli israeliani, o parte di essi, potranno pure rifarsi al sionismo o al Vecchio Testamento per motivare le loro pratiche discriminatorie e criminali, ma la spinta reale, quella decisamente più significativa, proviene da altre forze, che sono materiali (demografia, posizione geopolitica, terre coltivabili, gas, acqua, ecc.).
Proprio per questo non ho mai fatto riferimento, in tutto ciò che ho scritto nell’ultimo anno, all’ebraismo e al sionismo (e neppure all’antisionismo), così come non ho mai nominato gli ebrei in quanto tali; si tratta di una scelta discorsiva meditata, che trova la sua giustificazione nella volontà di non perdere di vista le cause profonde e le responsabilità. Se si vuole scrivere o anche solo pensare in forme utili alla conoscenza, bisogna sforzarsi di dedicarsi alle dimensioni che sono determinanti, più che ai risvolti che incidono in minima parte sugli eventi.
Ma c’è anche un’altra giustificazione, potremmo dire di strategia comunicativa. Proprio per la delicatezza delle questioni in gioco, sono convinto che vada fatto di tutto, a livello di linguaggio e di concetti utilizzati, per evitare di cadere nell’accusa di antisemitismo. La critica al comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi deve rendersi incompatibile con l’odio anti-ebraico. Intanto, perché si tratta di una forma di razzismo squallida (come ogni forma di razzismo, d’altra parte), ma anche perché le responsabilità di quanto sta accadendo a Gaza non sono degli “ebrei” in generale, bensì di una forma di potere politico ben riconoscibile.
È altresì vero che chi sostiene le ragioni dei palestinesi viene accusato sempre e comunque di antisemitismo. Questo modus operandi è antico quanto lo stesso conflitto israelo-palestinese, al punto da spingere diversi ebrei a prenderne le distanze, sia attraverso saggi teorici che interventi pubblici. In casi come questi, non bisogna tollerare; se qualcuno mi accusa di “astio anti-ebraico” perché avanzo riserve nei confronti delle politiche coloniali di Israele, prima di tutto gli dimostro discorsivamente che è un cretino, poi lo querelo.
Per esempio, in queste ore il Papa sta ricevendo da più personalità intellettuali e politiche l’accusa di essere un antisemita, e tutto perché ha scritto che bisognerebbe indagare se quello in corso a Gaza è un genocidio. Qui il problema risiede nell’avvicinare il termine “genocidio” allo stato di Israele, nato sulla spinta del genocidio subito dagli ebrei. Quest’accusa è certo il riflesso della sacralizzazione di Israele e del suprematismo che anima molti dei suoi sostenitori, ma è anche un’accusa debole, da cui è facile difendersi: basta richiamare quanto disposto in questi mesi da diversi organismi internazionali per capire che la frase del Papa è persino troppo timida. Fossi nel suo staff, mi divertirei non poco a squalificare costoro di fronte a un giudice …
Il problema è quando l’accusa non è rivolta a una specifica persona, ma a un insieme di persone (una manifestazione, un gruppo politico, ecc.). In questo caso, la difesa è più difficile, anche per l’enorme strapotere mediatico che supporta Israele. Eppure, i difetti di quest’accusa non mancano di palesarsi, e persino di moltiplicarsi. Per esempio, paragonando i fatti di Amsterdam alla Notte dei cristalli, come fatto da Netanyahu e da alcuni nostrani “intellettuali” e giornalisti, si finisce per ridurre l’importanza dell’evento che diede origine alla Shoa. E ridurre la portata delle azioni compiute dai nazisti contro gli ebrei rientra nella più classica delle definizioni di antisemitismo.
Cogliere le debolezze nell’accusa di antisemitismo rivolta contro chiunque critichi Israele non è difficile; il difficile è provare ad articolare una difesa che abbia lo stesso impatto comunicativo. Ma è una difesa che va fatta. E per farlo non si può che ribadire l’ovvio: il comportamento di Israele non viene contestato in quanto “ebraico”, bensì in quanto stato che sta compiendo una serie spropositata di crimini di guerra e contro l’umanità nella Striscia di Gaza e che sta attuando una pulizia etnica nei confronti dei palestinesi.
Al di là di singoli episodi realmente antisemiti, sempre da deplorare, a maggior ragione se avvengono in un contesto di critica delle politiche di apartheid, bisogna ribadire che il vero senso della critica attuale a Israele è indifferente alla sua natura “ebraica”, mentre invece è sensibile all’attitudine genocidaria – motivata da intenti esplicitamente coloniali – che sta esprimendo in questi mesi.
Dunque, per finire: l’accusa di antisemitismo rivolta a chiunque critichi le pratiche di Israele nei confronti dei palestinesi è davvero il frutto di una mistificazione, umanamente meschina e intellettualmente disonesta, ed è solo un modo – l’ennesimo – di giustificare i crimini di cui Israele si sta macchiato in questi mesi con il massacro dei palestinesi di Gaza.
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