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25 novembre 2024
tutti gli speciali

Sbatteremo contro il muro
di Alessandro Ferretti

In Israele avranno stappato bottiglie di champagne: dopo una intera settimana in cui l’ospedale Kamal Adwan è stato bombardato quotidianamente e ripetutamente con ogni tipo di arma, finalmente l’esercito israeliano è riuscito nell’eroica impresa di ferire il direttore dell’ospedale, Hossam Abu Safiya.

Il motivo di tale accanimento è presto detto: l’ospedale è situato tra il campo profughi di Jabalia e la città di Beit Lahia, ovvero nel bel mezzo della zona in cui Israele da due mesi sta conducendo una criminale e spietata campagna di pulizia etnica finalizzata all’annessione di quasi metà della Striscia (nella foto, Jabalia vista da satellite un mese fa e le rovine di oggi), ed è uno dei pochissimi punti di riferimento per una popolazione allo stremo.

Un mese fa l’esercito israeliano ha direttamente invaso armi in pugno l’edificio, ha distrutto o sequestrato tutte le ambulanze danneggiando pesantemente la struttura e, per buona misura, ha prelevato, incappucciato, picchiato e portato via molti pazienti e quasi tutto il personale medico (dei quali non si sa più nulla). La foto qui sotto, orgogliosamente postata dall’account Twitter gestito dal Mossad come segno di vittoria, mostra il cortile dell’ospedale con una fila di persone anziane, con grucce e flebo ancora attaccate al braccio, obbligate a restare praticamente nude di notte e al freddo in attesa di essere deportate verso luoghi di prigionia e tortura.

Al direttore dell’ospedale i militari hanno intimato di chiudere ciò che restava: Abu Safiya si è rifiutato di abbandonare le migliaia di civili che resistono in ogni modo alla pulizia etnica, e così l’esercito ha ammazzato il suo figlio quindicenne. Israele però non è ancora riuscito a scacciare via tutti i civili dalla zona che desidera conquistare e quindi, come d’abitudine ha alzato ulteriormente il livello dei suoi crimini. Nell’ultima settimana l’ospedale viene è stato bombardato ogni giorno, più volte al giorno, senza nessun preavviso, prendendo di mira i generatori, i medicinali, l’impianto idrico, l’impianto elettrico, le linee di distribuzione dell’ossigeno e, naturalmente, il personale.

Per assicurarsi di riuscire ad uccidere o ferire il maggior numero possibile di persone l’esercito ha scelto di impiegare sull’ospedale una delle armi più disumane del suo arsenale: la bomba a frammentazione.

Tali armi sono costituite da cilindri pieni di esplosivo e foderati con migliaia di millimetrici cubetti di tungsteno, un metallo raro estremamente duro e talmente denso che un un cubo di 4 cm di spigolo pesa più di un chilo. Quando l’esplosivo scoppia, i microscopici cubetti vengono scagliati in tutte le direzioni uccidendo o ferendo gravemente chiunque si trovi nel raggio di 20 metri dall’esplosione: sono infatti in grado di penetrare facilmente la carne e distruggere tutto ciò che attraversano, sbriciolando letteralmente le ossa e devastando i vasi sanguigni.

Oltre a ciò, il tungsteno è fortemente cancerogeno: in uno studio su topi in cui sono stati impiantati cubetti di tungsteno identici a quelli delle bombe si è mostrato che il metallo, se rimane sottopelle, induce tumori metastatici nel giro di pochi mesi nel 100% dei casi.

E’ proprio una di queste bombe, normalmente destinata all’impiego contro la fanteria, che sabato notte ha ferito il direttore Abu Safiya a una coscia, provocandogli un forte shock doloroso e danneggiando i suoi vasi sanguigni, portando a venti il totale di lavoratori dell’ospedale feriti nel giro di tre giorni. Mezzo metro più su e sarebbe stato colpito al torso e con ogni probabilità ucciso.

Eppure, anche mentre gli venivano prestate le prime cure, in un discorso inframmezzato da smorfie di dolore il dottor Safiya ha reiterato che ad abbandonare i civili palestinesi non ci pensa nemmeno, nè lui nè tutti gli altri che ancora rimangono in piedi: “è un onore per me servire in questo ospedale”, “anche se il servizio che siamo in grado di offrire è limitato, continueremo a farlo fino all’ultimo, anche se dovesse costare la vita”.

Abu Safiya è perfettamente consapevole che il mondo ignora deliberatamente i gravissimi crimini compiuti da Israele, ma nonostante ciò continua incessantemente a fare appelli all’ONU, all’OMS e a chiunque abbia il potere di fermare il progetto di sterminio e colonizzazione. Ieri ha diffuso un video particolarmente potente, in cui viene ripreso tutto il personale ferito da Israele negli ultimi tre giorni e si reitera l’appello alla comunità internazionale per bloccare gli spudorati crimini israeliani contro l’ospedale, i suoi lavoratori, i suoi pazienti.

E, incredibilmente, già oggi, nonostante non siano passati neanche due giorni dal ferimento, il dottor Abu Safiya ha preso una stampella e ha ricominciato ad assistere i suoi pazienti. Nell’ennesimo appello rivolto al mondo affinchè intervenga a fermare la follia genocida è come sempre calmo, riflessivo, gentilmente determinato.

L’altro giorno mi è capitata la ventura di guardare la trasmissione simbolo dei sedicenti progressisti italiani, in cui Fabio Fazio “intervistava” Jannik Sinner dopo la vittoria alle ATP Finals. Uso le virgolette perchè in realtà non era un’intervista, ma un panegirico da autentico esaltato: Fazio, visibilmente alterato dall’emozione e con uno sguardo adorante, ha ricoperto l’imbarazzato tennista di lodi sperticate e talmente esagerate da risultare ridicole, ostentando commozione come se si trovasse al cospetto di Gesù, la Madonna e tutti i santi.

“La determinazione che hai.. io non so come fai. Hai una lucidità di gioco, una.. ma sei pazzesco, pazzesco, guarda. Ma tu ti vedi? Ma tu ti commuovi a vederti, porcaccia la miseria?”, e via discorrendo, sette minuti filati di adorazione capaci di far venire il diabete pure ad Attila l’Unno.

Un giorno, se la specie umana sopravvivrà alla catastrofica escalation di follia attualmente in corso, bisognerà inventare una nuova unità di misura per stimare la profondità dell’abisso in cui la nostra società attuale si trova a sguazzare.

Da una parte, un onesto personaggio che per lavoro prende a racchettate una pallina guadagnando in cambio centinaia di milioni viene esaltato come un nuovo Messia davanti al quale rotolarsi nel fango della piaggeria. Dall’altra, un uomo che incarna le virtù cardinali della carità e della fratellanza, che ha subito l’assassinio di suo figlio e testimoniato la strage di altre centinaia di innocenti, e che dedica la sua esistenza alla cura del suo prossimo, mettendo sul piatto la sua nuda vita di fronte a un intero stato scatenato e iperpotente che vuole sterminare la sua gente, riceve come premio una fatica immane e continue e indicibili sofferenze.

Chiunque abbia un minimo di cervello dovrebbe averlo ormai capito bene: una società che esalta ridicolmente il primo e nasconde deliberatamente l’esistenza stessa del secondo consegnandolo di fatto al martirio non ha altra meta che l’autodistruzione. Solo recuperando il senso della solidarietà, dell’ascolto, dell’empatia può esserci un futuro, ma temo non basterà avvisare del pericolo: “Le persone non ascoltano fino a quando non sbattono contro un muro”, diceva mio padre… e stavolta il muro lo prenderemo in pieno.

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