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18 novembre 2024
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Indigeni: la retorica del post-genocidio
di Gabriele Germani

Il genocidio procede anche nella produzione culturale, nelle parole e nei concetti.

Genocidio è far scomparire l'ottimo miele di Gaza, le api che materialmente lo producono (ma poi in Occidente si fanno le campagne pubblicitarie per farle tornare).

Genocidio è anche sviluppare una retorica post-coloniale e post-genocidio.

Talvolta sentiamo parlare dei palestinesi come di "indigeni".

Il termine è controverso, non perché spregiativo, quanto invece per l'uso che ha assunto nel linguaggio post-coloniale. "Indigeni" sono i superstiti, sono i nativi del Nord America, dell'Amazzonia o della Patagonia, sono quelli in Australia o Alaska. Le comunità "indigene" sono piccoli gruppi, di solito demograficamente residuali, che vivono in aree assegnate.

Gli indigeni non possono governare lo Stato o rivendicare dei propri Stati, possono ambire a degli spazi di autogoverno concessi nel post-genocidio dal governo centrale.

Gli indigeni escono dal processo politico, vengono proiettati in un momento astorico, si insiste sul tempo del mito o del sogno; le rivendicazioni non sono più politiche, ma artistiche, di culto e come tali tollerate, se non incoraggiate per fare business. La popolazione palestinese non è però minoranza numerica assoluta nelle proprie terre, è si vittima di genocidio, ma la resistenza non è piegata.

Non siamo davanti a un'assimilazione in "riserve indiane autogovernate" conclusa, Israele non ha ancora vinto. I palestinesi non sono i nativi della Palestina, sono gli abitanti legittimi di quella terra, è importante conservare questa consapevolezza.

Indigenizzare una popolazione, vuol dire infantilizzarla, renderne necessaria l'educazione forzata. Lo abbiamo visto in decine di casi in Australia, Canada o Groenlandia di bambini strappati alle famiglie e poi mandati a soffrire punizioni, torture e talvolta morte nelle scuole missionarie.

L'indigenizzazione è un processo di espulsione dal politico, non lasciamoci ingannare.

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