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Racconti fake sulla fine dei capi della resistenza
di
Rossella Ahmad
Avevo lasciato aperta una porta sull'abisso per studiare antropologicamente quegli individui che, nel corso di un anno del genocidio più documentato della storia, che si è dispiegato senza segreti in live streaming, hanno utilizzato il loro tempo vitale per sputare sulle vittime, con il ghigno sadico dell'uomo miserabile.
Ho fatto forza su me stessa, sulla mia capacità di sopportazione delle (dis)umane perversioni per cercare di capire cosa alberghi nel fondo della mente di gente che approfitta di un mezzo social per tentare la più grottesca operazione possibile: adattare la verità ai propri fini. Poi ho compreso che non di arcano si tratta, ma di semplice mediocrità ed analfabetismo emotivo. Uniti a ciò che qui definiamo faccia di corna. La banalità del male nella sua accezione più vera.
Gli episodi a cui attingere sono tanti, debbo scegliere da un mazzo ben nutrito.
Tralasciando il drama-sit-com con risvolti trash, loro ex cavallo di battaglia, già azzoppato e prossimo a defungere, ricordo:
La celebre guerra civile a Gaza che nessuno ha mai visto. Dove sei finito, Hamza? Illuminaci su queste fantomatiche allucinazioni, dai.
La resistenza palestinese in esilio dorato in Qatar. Lo abbiamo visto il loro esilio dorato: nei campi profughi di Gaza, falciati a grappoli, assieme ai loro figli e nipoti.
Yahya Sinwar, prima versione: nascosto nei tunnel, con civili ed ostaggi usati come scudi. Seconda versione: solo ed abbandonato da tutti. Un appestato, in pratica. Realtà: con un pugno di uomini, dispersi dal primo attacco missilistico, ha combattuto fino alla fine. È andato da solo ad attendere la morte, seduto, calmo, dopo aver compiuto gli ultimi due gesti da resistente con l'unico braccio rimastogli. La sua leggenda parte da qui e l'ha creata Israele.
Sarei comunque curiosa di conoscere la percentuale di uomini che potrebbero vantare questo stesso coraggio, questa stessa abnegazione. Ho ragione di credere che parliamo di percentuali infinitesimali, se non nulle.
New entry con il tocco consumistico/trash di un rapper occidentale di periferia: la borsetta della moglie di Sinwar. Date un'occhiata alle agenzie serie e vedrete che una fetenzia del genere manco la prendono in considerazione. Per inciso: vengo dalla patria del pezzotto , che tuttavia è alle spalle di Cina ed Egitto nell'arte della contraffazione. Ma poi: inventatele meglio. La Birkin. Tempi infiniti di attesa, e credenziali di un certo livello per ottenerla, per poi sfoggiarla nei tunnel di Gaza. Fate vomitare.
Infine Mutaz: scappato perché minacciato di morte da Hamas. Panzane così facilmente scopribili che nutro seri dubbi sull'amor proprio di chi le posti. Il profilo Instagram del fotoreporter è aperto. Dategli un'occhiata, a ritroso. È facile e vi evita le figuracce.
Tralascio tutto il resto. I video apocrifi ed artefatti, le notizie inventate come se non ci fosse un domani, gli strani personaggi che si propongono come sconosciute opposizioni alla Guaidò, l'incapacità assoluta di decodificare immagini e informazioni. E tralascio persino la foto del rampollo Palhavi spacciato come il salvatore a cui gli iraniani ambirebbero, proprio mentre a Teheran, tabriz e shiraz folle oceaniche urlano "morte all'America".
Mi chiedo come ci si senta ad essere dei cazzari sesquipedali. Ecco, il vero arcano da spiegare è questo.
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