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Quello che abbiamo trascurato nelle nostre analisi
di
Paolo Mossetti
Molti analisti e divulgatori occidentali – e mi includo tra questi – hanno sottovalutato negli ultimi mesi due aspetti: quanto Israele fosse disposto a correre rischi per regolare i conti con i suoi nemici storici, e quanto il fronte euro-atlantico – in primis, ovviamente, l'amministrazione Biden – fosse disposto a lasciarglielo fare. Come tanti altri, ho dato troppo per scontato che ci fosse una soglia oltre la quale Hezbollah/Iran sarebbero stati costretti a rispondere, e gli Stati Uniti pronti a intervenire per congelare il conflitto.
Il fattore imperiale è stato determinante: per quanto sbagliato possa essere stato il calcolo di Sinwar e Nasrallah dopo il 7/10, sono stati l'abbraccio senza tregua di Biden a Netanyahu e l'irrilevanza europea a intrappolarli, e l'Iran con loro, in una strategia che adesso appare senza via d'uscita, diretta verso un pericoloso vuoto di potere e di potenziali guerre civili in Medio Oriente.
Personalmente, inoltre, ho sopravvalutato la determinazione del MAGA a chiudere la pagina del regime change in Medio Oriente: invece oggi Jared Kushner parla apertamente (e impunemente) di fare la guerra all'Iran e decapitare gli ayatollah per mantenere la supremazia americana nella regione.
Di fronte a questo scenario, in Europa, la rabbia contro Israele e le sue guerre produce effetti politici limitati, anche nei partiti populisti: l'odio anti-islamico e la passività creano una zona cuscinetto che consente a discorsi che si pensavano sepolti negli anni Duemila di riaffermarsi.
L'asse della resistenza in Medio Oriente si è dimostrato, per ora, incapace di una sollevazione coordinata, e questo rende ancora più stucchevole la narrazione "centro-liberale", à la BHL, che vuole Israele a rischio di soccombere. La devastazione del soft power israeliano nel mondo è reale, i danni arrecati alla sua immagine non hanno eguali, e la causa palestinese non ha mai ottenuto tanti riflettori e concessioni simboliche come ora, ma molti hanno, in buona fede o per disperazione, sopravvalutato le capacità del sedicente Sud Globale o di entità come i BRICS di soffocare l'escalation israeliana.
L'IDF ha correttamente concluso che, a questo giro, Washington avrebbe accettato uno schiaffo diplomatico dopo l'altro, e che le lobby all'interno del Partito Democratico avrebbero garantito che non ci sarebbe stato alcun cessate il fuoco a Gaza. Nel frattempo – e su questo molti di noi erano stati chiari da mesi – alcune sentenze di tribunali sovranazionali avrebbero avuto un ruolo importante nell'allargare i confini del dicibile, ma non avrebbero fermato la guerra né fatto vergognare l'opinione pubblica israeliana per aver essersi difesa come riteneva opportuno, data anche la legittimazione internazionale ricevuta per la rappresaglia.
Le risposte delle nazioni in guerra sono determinate dai segnali che arrivano dall'estero. È stato certo l'eccidio di Hamas a unificare Israele dietro una leadership militare e politica spietata, che molti israeliani detestano a livello personale, ma è stata soprattutto la certezza di avere le spalle coperte dall'alleato statunitense a rendere anche solo pensabile questo "nuovo 1967". E se servisse ad aggirare l'isolamento internazionale, la politica israeliana ha dimostrato di essere disposta ad appoggiarsi anche a forze non democratiche all'interno degli Stati Uniti.
Gaza, che non è altro che una prigione a cielo aperto, non poteva essere il Vietnam del Nord, con una popolazione molto più ampia, alleati molto più potenti e un esercito molto più forte. Né Israele, checché ne dicano quelli che parlano di una società divisa e variegata, nel 2024 somiglia agli Stati Uniti del 1968. In quello che è diventato l'ultimo disperato tentativo di aprire una finestra sulla questione palestinese e di ripensare una piattaforma di convivenza in Medio Oriente, le vere forze rivoluzionarie potevano essere soltanto altre, soltanto esterne, e per ora sono venute a mancare.
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