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Inizio del mio viaggio in Israele
di
Paolo Mossetti
Sono arrivato all'aeroporto di Ben Gurion di Tel Aviv in un giorno di inizio settembre, un periodo in cui solitamente i turisti abbondano, e invece mi ritrovo in coda ai controlli insieme a un rabbino italiano, una influencer russa adolescente, due badanti ucraine. Le ultime due sono lavoratrici stagionali, vanno e vengono da Odessa passando per la Moldavia e parlano russo.
Il rabbino, che è di Milano, appena apprende che sono di Napoli alza gli occhi al cielo: «Amico mio, non dirmi da che parte stai perché lì tifano tutti per quelli... gli altri, e pure il vostro sindaco non fa nulla per denunciare i terroristi. Mi auguro che tu possa fare un lavoro onesto». Gli rispondo che voglio solo curiosare, vedere che atmosfera si respira. Sarò una pagina bianca.
Un agente di sicurezza ci interrompe e mi porta nel famigerato «ufficio» della dogana, quello dove una poliziotta matura, con lo sguardo ferreo, mi sottopone a una mitragliata di domande: cosa ci faccio lì, perché proprio ora, cosa penso della guerra, quali amici ho in Israele, i loro numeri, come fanno di cognome i miei genitori, e cosa intendo con certe cose scritte su Twitter.
Tutto in parte previsto, come mi avevano raccontato altri giornalisti prima della partenza. Ma l'interrogatorio mi costa due ore, con
zelanti burocrati che, mentre la poliziotta mi parla, passano al setaccio i miei account social. Tutti aperti, ovviamente, perché renderli privati sarebbe stato inutile, anzi, peggio.
Alla fine, un funzionario mi lascia entrare, restituendomi il passaporto con una frase che mi rimarrà impressa: «Potevi aspettare un po' prima di venire a trovare i tuoi amici: tra qualche mese sarà tutto finito». Mi augura buona permanenza con un sorriso beffardo.
«Cercano di mantenere una parvenza di democrazia», mi commenta un inviato Rai con cui sono in contatto, che era stato a Gerusalemme qualche settimana prima. «Noi corrispondenti con tesserino siamo più tutelati. I freelance invece sono in un buco nero. Ma non vogliono creare problemi alla diplomazia. Basta che non intervisti le persone sbagliate».
L'influencer russa, scoprirò, verrà invece messa su un altro volo rispedita a casa: troppo giovane, e in odore di OnlyFans e prostituzione, con cui troppi tirano a campare a Tel Aviv, a quanto mi dicono.
All'ufficio turistico mi rifocillo con cartine e depliant, per dare ancora più credito alla mia versione di viaggiatore casuale. Questa è la mappa di Israele che arriva in mano a ogni visitatore: come potete vedere, i Territori Occupati sono inglobati, la linea divisoria verde del 1967 non esiste più, e Gaza è attraversata da strisce diagonali, come un errore della Storia.
«Non è un errore, non è una casualità. Quella mappa è semplicemente la versione ufficiale dello Stato israeliano in questo momento storico», mi spiega Mauricio Lapchik di Peace Now, un'ONG israeliana che lavora per costruire ponti tra vari segmenti di opposizione a Netanyahu e si batte per la soluzione a due Stati.
«Solo dieci anni fa avrebbe fatto scandalo, ma oggi è diverso. Oggi l'intera società è sulla via della radicalizzazione e accetta queste cose. Ma esistono sacche di opposizione». Andiamo a vedere se è vero, e che aria si respira.
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