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I figli del duce non sono morti in guerra
di
Rinaldo Battaglia *
Ricordo una particolare chiacchierata, quand’ero ragazzo, tra due anziani padri di famiglia, già nonni allora, in merito alla guerra. A quel tempo lavoravo d’estate in un bar-trattoria da amici di famiglia e non mi mancavano, quindi, occasioni di sentire discorsi da persone normali, non impegnate nella vita politica dove, anche allora come ora, la propaganda uccideva la verità storica.
Qui erano solo padri di famiglia, solo semplici uomini, di mentalità onesta e contadina, ma col ricordo dei figli, quelli non più tornati a casa. Quei ricordi inevitabilmente spesso tornavano a galla e tagliavano di colpo i loro pensieri, anche e soprattutto davanti ad un bicchiere di buon vino. Uno aveva il figlio Francesco, di 23 anni, disperso in guerra nella campagna di Russia e di certo morto senza sapere né dove né quando. L’altro ucciso in combattendo – credo - in Grecia. Ad entrambi non solo mancava il figlio, ma anche una tomba su cui piangere e portare almeno un fiore, quale ultimo saluto prima, anche loro, di andarsene per sempre.
Avrò avuto 15/16 anni e già sapevo in parte del destino analogo della mia famiglia, con un ragazzo di quell’età allora sepolto in un lager nazista.
Quei discorsi quindi mi colpirono più di altri e, anche a distanza di quasi 50 anni, non li ho dimenticati.
Una frase soprattutto mi colpì. Era forse il 1976 o il 1977, anni delle Brigate Rosse, del sequestro di Aldo Moro e delle stragi neofasciste. E la causa di quel discutere tra i due anziani padri, probabilmente, partiva dall’analisi di quella brutta realtà.
Il padre di Francesco ad un certo punto bloccò le parole dell’altro dicendo, convinto, che “i figli del Duce non sono morti in guerra”.
Non era un riferimento specifico solo e soltanto a Mussolini, ma più ampiamente a tutti gli altolocati, i capi, gli uomini di potere che decidono e fanno partire, di loro scelta, le guerre. Un po’ al motto: “armiamoci e partite”. Perché i propri figli non si possono mai toccare e, meno ancora, sacrificare: è il massimo punto dell’amore umano, per cui i padri – quelli sì – sono disposti a perdere tutto. Costi quel che costi. Chi ha avuto la fortuna di essere genitore sa che non servono ulteriori parole a supporto. E io, grazie a Dio, sono padre e nonno.
Quella frase mi colpì talmente che più avanti andai a spulciare il destino dei figli effettivi di Benito Mussolini e ne trovai conferma. Certo: anche il Duce aveva provato il dolore per la morte di un figlio negli anni della guerra, ma questo avvenne il 7 agosto 1941 quando Bruno, anch’egli allora di soli 23 anni, morì in un’esercitazione durante un volo di prova a Pisa mentre pilotava un quadrimotore Piaggio. Bruno, peraltro, era partito volontario nella guerra di Spagna, ma sempre in ruolo secondari, più utili alla retorica e alla propaganda fascista che alla causa militare.
Di Albino Benito, avuto da Irene Dalser nel 1915 e morto in manicomio il 26 agosto 1942, invece è meglio non parlarne. Sarebbe facile trovare parole di disprezzo sul suo comportamento visto che in manicomio a Mombello a morire lo mandò suo padre.
“I figli del Duce non sono morti in guerra”. Quanta verità. Le guerre vengono decise e gestite sempre sulla pelle degli altri e anche quando si potrebbe fermarsi o finalmente capire che ci si era sbagliati (e quindi di intervenire e modificare) non lo si fa. Perché serve coraggio ed onestà interiore. Anzi, quasi sempre si reagisce all’opposto, con vigliaccheria e fanatismo.
Oggi è il 14 settembre. 81 anni fa in queste ore Benito Mussolini incontrava a Rastenburg Adolf Hitler, il suo ‘salvatore’ e ‘guida’. Solo due giorni prima era stato liberato, peraltro senza alcuna minima opposizione italiana – chissà poi come mai? - dalla prigionia a Campo Imperatore, sul Gran Sasso dai paracadutisti tedeschi della 2a Fallschirmjäger-Division in quella che venne definita 'l‘Operazione Quercia’.
Ora era lì, stanco e dimagrito. Le foto lo immortalarono non più come l’Uomo della Provvidenza, ma come un vecchietto oramai finito, un fallito, persino forse stanco di vivere e coi piedi già nella fossa.
Era il 14 settembre 1943. Poteva fermarsi, lasciare il suo destino e separare il destino dell’Italia dal suo, per sempre. La guerra sarebbe continuata ma probabilmente sarebbe stata diversa. Meno da guerra civile, con meno fanatismo, odio, rancore. E soprattutto meno sangue innocente, con meno stragi e massacri. Perché – non nascondiamolo – in tutte le principali stragi e massacri successivi gli uomini del Duce poi ci saranno. Eccome. E non solo a Marzabotto o a Sant'Anna di Stazzema.
Certo coi ‘se’ e coi ‘ma’ non si fa nulla nella vita e, quindi, anche la Storia non è esente da questo discorso. Perché tutto prese forza da quel 12 settembre quando dopo un secondo, un attimo forse anche meno, si seppe della ‘liberazione’ del Duce. E tutti i nostalgici acquisirono vigore e nuova energia, tutti i fascisti doc ripresero vita.
“I figli del Duce non sono morti in guerra”. Probabilmente se il 14 settembre 1943 Mussolini avesse detto ‘NO’ al Führer, se si fosse opposto e rifiutato di mettersi alla testa della Repubblica Sociale italiana, di diventare succube, vassallo, subalterno alla volontà e agli interessi nazisti, avremmo in Italia avuto una diversa ‘guerra’ dopo l’8 settembre. Probabilmente questo gli sarebbe costato la vita, perché per Hitler chi non accettava le sue decisioni risultava, sempre e solo, un traditore e quindi con la fine già segnata. Ne sapevano qualcosa tutti i soci iniziali del Fuhrer, ne sapranno altrettanto qualcosa i generali non più convinti del successo nazista (come Rommel, ad esempio). Del resto, Hitler era stato prima allievo e seguace del Duce ed ammirato dal suo comandamento “Chi non è con noi è contro di noi.”
Ma credo che siano analisi poco sensate, perché Mussolini era 'il fascismo in persona' come insegnava in un altro suo comandamento - “Quando il fascismo si è impadronito di un’anima non la lascia più.”
Spesso nei bar, soprattutto nel mio Veneto, ancora oggi qualcuno osanna il Duce. Nulla di strano: c’è gente che bestemmia con frequenza e disgusto anche Dio. Nulla di strano, ci sono politici al governo che ne hanno fatto un idolo, dimenticando quanto criminale sia stato e quanti suoi uomini siano poi stati inseriti, il 4 marzo 1948, tra i criminali di guerra dalla War Crimes Commission dell’ONU. Ben 1.283 che io sappia. Lo osannano probabilmente perché non hanno mai vissuto quegli anni, quelli che hanno generato il dolore in quei vecchi padri di famiglia, che avevo ascoltato quasi 50 anni fa e che io ricordo che fosse ora.
“I figli del Duce non sono morti in guerra”. Frase contadina e popolare che in forma molto più poetica Pablo Neruda – di cui peraltro fra 9 giorni ricorre il 51° della morte, dopo il golpe fascista nel suo Cile dell’11 settembre 1973 – aveva riassunto in quel suo “Le guerre sono fatte da persone che uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono”.
Dalla morte nei nostri soldati in Russia sono passati oltre 80 anni, oltre 50 da quelli nel golpe di Pinochet, oggi abbiamo guerre in casa in Europa o eterne nel Medio Oriente, ma nella sostanza nulla sembra che sia cambiato.
Forse si è tornati indietro nel tempo e quella frase mi resta ancora veritiera, cinica ma alquanto attuale: “I figli del Duce non sono morti in guerra”.
14 settembre 2024 – 81 anni dopo
* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
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