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Melenchon: definirlo rossobruno significa non tenere conto che...
di
Paolo Mossetti
Accusato di antisemitismo strutturale a causa di alcune esternazioni infelici passate, o per quelle radicalmente critiche con Israele della base elettorale arabo-musulmana che lo vota, in realtà il Mélenchon più controverso era quello nazionalista del 2017.
Era un Mélenchon che si appellava ai resti dei domini coloniali ed ex colonie per affermare il proprio universalismo (prima immagine).
Che rifiutava la responsabilità "francese" per i crimini dell'Olocausto, dicendo che erano colpa dei soli fascisti di Vichy mentre il vero governo francese era in esilio.
Un Mélenchon che si accompagnava all'ex ufficiale di riserva Djordje Kuzmanovic, un sovranista di sinistra che dal 2016 al 2018 ha fatto stare France Insoumise su una linea fortemente euroscettica, critica sull'immigrazione irregolare simile a quella del M5S di allora, di Di Battista.
Dopo essersi liberato di Kuzmanovic per manifesta incompatibilità e dopo la rivolta di molti militanti di sinistra, per qualche tempo Mélenchon ha patito una vistosa crisi di consenso: soprattutto nei segmenti antisistema conservatori sulla cultura e nel ceto operaio, anche per la contemporanea crescita tra gli stessi segmenti di Le Pen. Allo stesso modo il M5S di Conte che oggi finisce a sinistra in Europa non è lo stesso "pesca tutto" di un lustro fa, e non ha recuperato più i segmenti antiprogressisti e sovranisti radicali.
Definire Mélenchon "rossobruno" dunque vuol dire non conoscere questo percorso e queste lacerazioni. È il rappresentante di sinistra di una sinistra forse poco simpatica e prigioniera talvolta di una retorica che la rende poco digeribile agli "smart" del terziario avanzata, ma anche una sinistra consapevole del bisogno di tenere insieme, per vincere, sia i segmenti centrali che quelli periferici della società.
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