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17 maggio 2024
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Israele: i moderati non hanno mai avuto spazio
di Roberto Rizzardi

Per le autorità israeliane, esplicitamente per la componente di estrema destra che pervade governo, forze armate e classe dirigente d'Israele da anni, la volontà di negare una dimensione statuale ad una Palestina araba è da sempre l'obiettivo per eccellenza.

La principale motivazione "morale" dell'intransigenza ebraica si basa sull'altrettanto chiara indisponibilità delle fazioni più estremiste palestinesi a riconoscere lo stato d'Israele.

Chi abbia cominciato per primo a manifestare questo tipo di intolleranza è ormai seppellito sotto alle mortali conseguenze di un costante lavorìo inteso ad esasperare il confronto, e ciò che passa per "moderato" nella comunità araba non può arrischiarsi a dissentire pubblicamente da questa linea, perché le condizioni sono troppo tese ed esasperate per non venire immediatamente tacciati di tradimento.

Dunque Gerusalemme rimprovera e criminalizza il nemico palestinese esattamente per il tipo di chiusura che costituisce la base incrollabile della sua stessa strategia. I moderati delle due parti non hanno mai avuto alcuna chance. Le loro voci sono sempre state sovrastate da reciproche provocazioni operate dalle opposte e più estreme frange.

Quando un Primo Ministro israeliano, Yitzhak Rabin, osò firmare un trattato che riconobbe l'Autorità Nazionale Palestinese, con il compito di autogovernare, seppure in modo limitato, parte della Cisgiordania e la striscia di Gaza, un inizio di normalizzazione potenzialmente molto promettente, un estremista di destra israeliano, Yigal Amir, lo ferì mortalmente con due colpi di pistola.

Per una serie di ragioni, economiche, politiche e militari Israele ha sempre potuto contare su potenti e determinanti appoggi occidentali, mentre i palestinesi sono stati abbandonati da tutti, e se godono di qualche forma di supporto questo è subalterno a considerazioni geostrategiche di potenze locali che li utilizzano come pedine sullo scacchiere mediorientale.

L'improvvida ed efferata azione del 7 ottobre scorso, probabilmente è stata richiesta dall'Iran per gettare una badilata di ghiaia nel processo di normalizzazione tra Israele ed Arabia Saudita, molto malvisto da Teheran, come è poi effettivamente avvenuto.

Al momento Isarele ha ridotto il suo nemico più pericoloso, Hamas, nell'angolo e con ridotte opzioni operative, ma appare sempre più evidente che, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali che definiscono le operazioni militari nella Striscia come eliminazione definitiva di quella organizzazione, vi è anche un altro obiettivo da conseguire: la rimozione della presenza palestinese dalla Palestina.

Il terrore eletto a condizione di vita permanente, la distruzione di case e infrastrutture, la precarizzazione dell'esistenza e l'azzeramento delle prospettive di tregua, unite all'annichilazione di ogni forma di organizzazione politica ed amministrativa pongono la popolazione palestinese di fronte ad una scelta miserabile: morire sotto le bombe, oppure andarsene per dare vita ad una diaspora, palestinese questa volta.

Lo stato d'Israele - l'unica democrazia dello scacchiere, come non si stancano di ricordarci - la nazione e la cultura che di una diaspora millenaria hanno fatto patrimonio identitario e potente motivazione per la costruzione di uno stato, non trovano di meglio che infliggere ad un altro popolo, che con loro ha sorprendenti sovrapposizioni, lo stesso tormento e destino a loro volta patito.

Giustizia? L'è morta.

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