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11 maggio 2024
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I mille di Marsala
di Rinaldo Battaglia *

Il tempo talvolta torna indietro e lo fa in modo irriverente, forse offensivo, portandoti quasi il conto da pagare anche per vicende precedenti e probabilmente non più, in quel momento, importanti. La vicenda di Marsala ne è una prova perfetta, quasi da manuale.

La bella cittadina siciliana è passata alla Storia per la gloriosa spedizione dei Mille, diventando tappa fondamentale nel nostro Risorgimento. Quando quel migliaio di volontari, agli ordini di Giuseppe Garibaldi, partì nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860 dal piccolo porticciolo di Quarto, vicino a Genova - a quel tempo terra del Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II di Savoia - con obiettivo la Sicilia - allora parte vitale del Regno borbonico delle Due Sicilie - nel pomeriggio dell’11 maggio sbarcò come prima tappa proprio a Marsala.

Garibaldi così decise convinto, perché informato – si dice – anche da un veliero inglese, che quel porto non fosse per nulla protetto da imbarcazioni borboniche. Come poi risultò. E da lì iniziò la conquista dell’Italia del Sud e, di fatto, la creazione dello Stato nazionale. Da Marsala partì un messaggio verso il progresso e verso l’unificazione dei nostri territori sotto un’unica bandiera. Messaggio chiaro, diretto ai Borboni e ai suoi sostenitori: ‘stiamo arrivando’.

In breve, si farà l’Italia, rimanevano ‘da fare gli italiani’, come disse poco dopo Massimo D’Azeglio e probabilmente quel lavoro non è mai stato completato. Del resto, già dopo Marsala, il grande intellettuale del posto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa non solo scrisse che tutto stava cambiando affinché nulla cambiasse ma che ‘noi fummo i leoni e i gattopardi, ma dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli’. E probabilmente anche questi ci azzeccò.

Era l’11 maggio 1860. Esattamente 83 anni dopo, l’11 maggio 1943 Marsala sarà la prima tappa nella conquista dell’Italia da parte degli alleati, gli americani in prevalenza. Le forze italo-tedesche erano state sconfitte in Africa – la resa verrà firmata il giorno 13 – ora toccava a noi, al nostro territorio. Era da un altro giorno 11 del mese (l’11 dicembre 1941) che Roosevelt voleva vendicarsi.

Quattro giorni dopo Pearl Harbor quando gli americani, furiosi più che mai, piangevano i 3.000 morti uccisi a tradimento in quella domenica mattina, Mussolini aveva dichiarato guerra agli USA, facendosi maledire a voce alta da tutti gli italo-americani d’oltre oceano. Peraltro, con la massima arroganza e supponenza: “Le potenze del Patto di acciaio, l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, sempre più strettamente unite, scendono oggi a lato dell’eroico Giappone contro gli Stati Uniti d’America. Il tripartito diventa un’alleanza militare che schiera attorno alle sue bandiere 250 milioni di uomini risoluti a tutto pur di vincere!” E Roosevelt, dalla sua sedia a rotelle, aveva giurato che sarebbero arrivati quanto prima sulle nostre coste.

A Marsala in quell’11 maggio, verso le 10 del mattino, suonarono improvvisamente le sirene dell’allarme. Nessuno se lo aspettava. In pochi minuti dal mare, da sud arrivarono in serie, come stormi di uccelli migratori, gruppi di Boeing B-17, dei B-25 e B-26 con la bandiera a stell’e strisce. Era un altro messaggio in codice: ‘Stiamo arrivando’. Messaggio diretto a chi doveva capirlo da tempo.

Al Re, nipote di quel Vittorio Emanuele del 1860, che non a caso dopo qualche settimana seriamente studierà come sostituire Mussolini alla guida del paese. E ai gerarchi del fascismo che non a caso decideranno di buttare a mare il loro capo, per salvare la loro barca, il loro fascismo e quindi il loro sedere. E non sarà un caso che la notte decisiva avvenne 5 giorni dopo il bombardamento della capitale. Altro messaggio in codice. In quel 19 luglio ’43 tra il quartiere San Lorenzo e il piazzale del Verano su Roma cadranno 4.000 bombe (ossia 1.060 tonnellate) causando oltre 3.000 morti, 11.000 feriti. 40.000 romani si ritrovarono senza un tetto e vennero distrutte ben 10.000 case.

A Marsala, allora sulla carta città di neanche 20.000 anime, in quell’11 maggio 1943 persero la vita 1.000 persone. Ancora mille, il numero mille che ritorna. Altissima e non quantificata invece l’entità dei feriti e dei mutilati, con danni alla città, alle sue chiese e ai suoi monumenti storici enormi e in qualche caso irrimediabili. Le bombe caddero dai lidi del Berbero ai colli di Santa Venera, persino sulla cupola della chiesa che da secoli svettava sulla distesa delle antiche case di tufo giallognolo.

Il messaggio su Marsala era stato chiaro. Lo scriverà tranquillamente nelle sue pagine di memorie Winston Churchill che con Ike Eisenhower pianificherà l’operazione 'Husky', quando 2 mesi dopo – 10 luglio – gli americani di George Smith Patton assieme agli inglesi di Bernard Law Montgomery e di Harold Alexander arriveranno, metteranno i piedi sul bagnasciuga siciliana e non si fermeranno più.

Il bombardamento su Marsala per lo svolgimento della campagna militare alleata – scrisse Churchill - fu assolutamente inutile. Tranne qualche presidio e qualche bunker di cemento sparso sulle rive del mare, nulla di militarmente rilevante si trovava a Marsala. Anche il porto della Florio era bloccato da tempo. Nulla di importante, come in quell'11 maggio 1860 ai tempi di Garibaldi. Quelle bombe servivano solo per disorientare le tattiche difensive dei nostri comandi e spingere gli italiani a ‘scrollarsi di dosso il fascismo’. Nulla di più.

Mille persone pagarono quel messaggio. Sempre ancora quel numero che a Marsala ritorna a fare Storia. Poco importa se in quel numero ci fossero donne, bambini, uomini in carne ed ossa.

Come Riccardo Pellegrino, un giovane di 28 anni con una moglie e due figli, che prestava servizio nell’esercito dall’inizio della guerra ed era rientrato a Marsala da due giorni, grazie a una licenza straordinaria accordatagli dal comandante della guarnigione di Palermo. Quando sentì le sirene anziché scappare via subito, nel rifugio più comodo, preferì fermarsi dall’amico Trincilla, che aveva una bottega di sartoria sull’altro lato del Cassero, lontano solo pochi metri da dov’era in quel momento.

ù L’amico era terrorizzato, bloccato, non riusciva più a muoversi. Riccardo lo chiamò e cercò di farlo reagire. All’arrivo delle bombe l’amico sarto d’istinto si rifugiò sotto il bancone robusto della sua bottega, Riccardo cercò la salvezza, restando in piedi, nell’angolo tra un pilastro e un muro portante della casa. Pochi secondi e una bomba centrò quell’edificio: Riccardo morì sepolto nel crollo e l’amico Trincilla, salvato dal bancone, venne estratto miracolosamente ancora vivo solo dopo molte ore, sotto metri di macerie.

O come Salvatore, il pescatore dello Stagnone che aveva già consegnato il suo pesce al mercato ed era tornato alla sua barca per sistemare come al solito la rete. Era seduto sul bordo del molo, con le gambe penzoloni sull’acqua del mare. Fu il primo a morire quel giorno a Marsala. Non fece neanche il tempo di sentire la sirena dell’allarme e a scappare verso qualche rifugio. Venne colpito da una scheggia di bomba caduta su un blocco di cemento del molo.

O come un’altra giovane mamma, Francesca Maltese, che con la figlioletta Beatrice era andata a dormire in campagna, nella contrada di Gurgo sulla via che sale verso Salemi, in quel momento usciva sulla terrazza della masseria a stendere i panni. Francesca, da quella terrazza poté assistere per due ore, bloccata e col cuore in gola, a quell’inferno che pioveva dal cielo. A distanza di decenni ogni volta che ne parlava un nodo le ostruiva ancora la gola e le fermava il respiro.

O come il piccolo Roberto che appena svegliato nella sua culla, veniva in quel momento allattato dalla mamma Tude, mentre la nonna Rosalia stava scendendo in giardino a lavare i pannolini del nipote nella fontana di pietra, sotto l’ombra del mandorlo. Totò Jevolella, il nonno, invece era appena stato a Mazara a comprare un medicinale per l’altra figlia Maria, quella che soffriva di una malattia alle gambe e riusciva a camminare con molta difficoltà. Maria, dal canto suo, come sempre leggeva i suoi libri di filosofia tedesca, nella stanza che affacciava sul viale della stazione, a cinquanta metri dal rifugio antiaereo.

Quando suonò l’allarme, tutti a gridare: «Maria, alzati, dobbiamo scappare al rifugio!». Ma i dolori impedirono a Maria di mettersi in piedi velocemente. Nessuno se la sentì di lasciare da sola Maria e così all’arrivo delle prime bombe, tutti cercarono la salvezza in giardino. Totò, Maria e Tude col piccolo Roberto in braccio si accovacciarono sotto il mandorlo mentre nonna Rosalia si gettò a terra contro il muretto.

Ma una delle tante bombe piovute dal cielo centrò proprio quel giardino, lasciando un cratere profondo almeno due metri. Dalle macerie si salvarono Totò, Maria e Tude, mentre il piccolo Roberto fu estratto, ancora vivo, da un cumulo di terra, sporco di sangue. Per alcuni giorni lotterà tra la vita e la morte ma si salverà. Della nonna Rosalia trovarono invece solo una scarpa.

O come Antonio Spina, un bambino di quattro anni, che nella sua casa di via XIX Luglio chiese alla mamma se potesse uscire in strada a giocare. Ma la mamma gli disse di ‘no’ quel giorno: aveva fatto un brutto sogno. Era meglio che Antonio non si perdesse nei vicoli, era meglio tenerselo vicino. Alla prima sirena tutta la famiglia Spina corse al rifugio della Villa del Rosario: una sorta di grande caverna artificiale dotata di un solo tunnel di comunicazione con l’esterno. Vi erano già quasi 400 persone e dentro l’aria mancava, soprattutto al piccolo Antonio. Non riusciva a respirare e c’era troppo buio, iniziò così a piangere a dirotto.

Il papà, allora, disse alla moglie di riposarsi un attimo, prese il figlioletto prima per mano e poi in braccio e si diressero verso l’imboccatura della grotta. In quel momento una potentissima bomba scelse di centrare la volta del rifugio. Alla fine, si contarono 310 vittime, quasi tutti bambini, donne e anziani. Antonio crescerà solo con l’amore del padre, perché la madre non uscì mai più da quel rifugio.

Quando anni fa ho letto su un giornale un articolo in merito (del 28/04/2012 - tp24.it) mi sembrava di esser tornato indietro ai tempi delle mie visite a Sant’Anna di Stazzema o nei paesetti del Piave distrutti nella Grande Guerra per il dolore indescrivibile che mi restava addosso. Come per la giovane mamma, Francesca Maltese, anche a distanza di 50/60 anni. Questa è la guerra, questa è la Storia di Marsala.

Questa è la guerra di tutte le Marsala del mondo, in Medio Oriente, in Ucraina o in qualsiasi altro disperato pezzo di questo mondo. E poco importa sapere che alla città siciliana nel 1961 è stata conferita la Medaglia d’oro al Valor Civile per il dolore di quel maledetto 11 maggio e per il grande coraggio dimostrato dall’intera popolazione nel volere reagire ad una prova così tremenda. In ricordo del sacrificio di ‘mille martiri’, di certo più doloroso di quello dei ‘mille eroi garibaldini’ di 83 anni prima.

I mille di Marsala, sempre mille ma di diverso peso, diversa sofferenza e diversa memoria.

11 maggio 2024 – 81 anni dopo - Rinaldo Battaglia

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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