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Causa palestinese è momento di consapevolezza collettivo?
di
Gabriele Germani
Per decenni l'Occidente anestetizzato ha visto passare guerre, inquinamento, scelte politiche deliberatamente ostili alla maggior parte della popolazione, al mondo del lavoro o al servizio pubblico, ma qualcosa sembra stia cambiando.
L'ondata di proteste nelle università statunitensi ed europee associata al riacutizzarsi in alcuni Stati del conflitto sindacale e alla crescita delle sinistre (più o meno radicali) segna una rottura.
Due anni fa, Macron disse che era finito il patto sociale che aveva garantito stabilità all'Europa. In qualche modo, era una riflessione onesta: venuta meno la rapina neocoloniale (ormai il mondo non è più disposto), viene meno il compromesso socialdemocratico.
In questo le proteste che vediamo sono collegate alle raccapriccianti notizie che riceviamo da Gaza e dalla Palestina, ma sono anche specchio di un declino più grande del consenso.
Le nostre economie sono state convertite in economia di guerra, il welfare è stato rimpiazzato dal warfare, che non riesce a creare posti di lavoro e a rimettere in moto l'economia.
La catastrofe ambientale, fino a ieri emergenza del capitalismo green, viene ora dimenticata a favore dei cannoni e tutta la sua complessità viene appiattita a pochi fenomeni (gravissimi, ma non isolati).
Quella che vediamo in strada è una protesta che si allarga e che vede nei fatti di Gaza un principio generale: la disumanizzazione dell'altro.
I cittadini di Gaza sono ridotti a cose, ostacoli per la grande pianificazione colonialista, capitalista e imperialista di cui Israele è alfiere.
Non più case, piuttosto villette vista mare (tutto è diventato un Airbnb del mostruoso) con a largo piattaforme petrolifere.
Ancora armi, bombe, fonti di energia fossili e trivelle in mare, acqua inquinata, bambini sfollati, animali uccisi dai rifiuti.
La Palestina è un momento di consapevolezza che il vecchio privilegio è terminato, che nessuno di noi vuole essere complice di un genocidio o partire per un conflitto lontano a favore dei fondi finanziari, del sistema bancario o della NATO.
Auspicabile che le forze progressiste, di sinistra, di buona volontà (voglio allargarmi) collaborino, trovino una quadra per realizzare insieme un grande piano di pace e conversione in chiave più equa (economicamente ed ecologicamente) di economia e politica.
Siamo di nuovo a un bivio tra ciò che potremmo essere e ciò che siamo nella paura di cambiare; ciclicamente la questione si ripropone sempre più impellente, urgente, radicale e ciclicamente facciamo la scelta sbagliata.
Oggi sta a noi decidere se vogliamo diventare una grande Israele: assediati, impauriti, costretti a un genocidio per mantenere dei privilegi insostenibili o se vogliamo provare ad essere altro, "il sogno di una cosa".
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