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13 aprile 2024
tutti gli speciali

Due vite
di Rinaldo Battaglia *

Nel Triangolo Rosso tra il 17 giugno ed il 31 luglio ’44 venne costituita dai partigiani comunisti la ‘Repubblica di Montefiorino’ (comprendendo anche Costrignano e Monchio), ossia una prova generale di autonomia e sovranità indipendente. Basata anche questa sulla forza dei fucili e della paura. Tipico di quegli anni. Come al di là di Trieste. Come per gli uomini di Tito. Come a Salò, il 23 settembre 1943 per i fascisti del Duce. Medesimo film, medesimo copione. Cambiano solo le vittime. Importava?

Tra queste vittime un ragazzo di 14 anni, quasi 15, Rolando Maria Rivi, che venne ucciso il 13 aprile 1945. Un ragazzo umile, dolce, che sin da bambino scelse di dedicare la propria vita a Gesù, a cui volle in toto appartenere. Non solo già era seminarista, ma talmente convinto della propria strada, da indossare orgoglioso sempre tutti i giorni l’abito talare. Anche nel Triangolo Rosso, anche in quegli anni di guerra e di paura, anche quando si manifestavano sempre più atti di violenza contro i sacerdoti o i religiosi in generale.

Rolando sarà uno degli 80 sacerdoti e seminaristi uccisi dai partigiani (quasi in toto comunisti) in Italia dal 1944 al 1947. Eroi che, muniti solo della Croce, lotteranno per la pace ed il Vangelo sebbene talvolta visti come simboli della Chiesa anti-comunista o legata ai padroni di prima. Talvolta visti anche come spie o informatori dei nazifascisti e quindi ostili alla causa partigiana. A priori. Come al di là di Trieste. Come per gli uomini di Tito. Il 10 aprile ‘45 per i partigiani comunisti, che operavano nella zona di San Valentino di Castellarano, il paese di Rolando – una decina di km da Costrignano e Monchio - si era in dirittura d’arrivo. Oramai la vittoria era quasi certa, visibile all’orizzonte. Era quindi aperta la caccia ai fascisti, agli oppressori di prima o a quelli che un domani avrebbero potuto opporsi ai sogni di gloria o di rivincita. Bisognava marcare il territorio, anche dagli altri gruppi partigiani, quelli non-comunisti.

Meglio anticipare e prevenire. In linea con l’esempio di Tito sul confine orientale. E forse coi sogni di gloria di Stalin da Mosca. Rolando, appena tornato dal seminario di Marola seguendo anche i dettami del Vescovo di Reggio che lo voleva a stretto contatto coi parroci del suo paese per una sua crescita personale, scomparve quel primo pomeriggio. All’improvviso, senza particolari segnali premonitori, senza motivazioni. Era la settimana dopo Pasqua, un martedì. Al mattino presto era stato in Chiesa, come al solito a Messa, ove suonava e cantava nel coro, assieme al papà Roberto. Si era persino accordato con gli altri per dei canti da eseguire il mattino successivo, nella S. Messa del giorno dopo. Tornati a casa, mentre i genitori andarono nei campi a lavorare, Rolando come al solito prese i suoi libri sottobraccio e si diresse nel boschetto vicino, dove era più facile studiare. Sempre vestito con la sua amata veste nera. Come al solito. A mezzogiorno non tornò a casa, diversamente dal solito.

Il padre spaventato si mise subito alla ricerca. I tempi erano sempre brutti e tutto era possibile. Intervenne anche don Alberto, il curato, che chiamò in soccorso i parrocchiani. La paura si vestì da disperazione quando si trovarono i suoi libri, dispersi per terra poco lontano, e accanto un biglietto lasciato su un ramo: ‘Non cercatelo. Viene un momento con noi partigiani’. Non vi è certezza sul testo, ma la sostanza non cambia anche se le parole non fossero precise e puntuali. Era facile capire chi poteva esser stato. Tutti furono allertati, tutti si mossero.

Si dice che Rolando abbia subito capito il pericolo e ugualmente spiegato chi fosse: a 14 anni, quasi 15 non poteva di certo avere colpe, non poteva essere né fascista né comunista o altro, tanto meno una spia. Lui era solo di Gesù. Si dice che sia stato percosso con delle cinghie, preso a schiaffi, bastonato, seviziato, umiliato, spogliato della sua veste che verrà usata come fosse un pallone di calcio e dopo qualche giorno appesa nel pergolato di una casa lì vicino. Si dice che piangente abbia chiesto pietà, come è naturale per un ragazzo di 14 anni, quasi 15. Si dice che qualche partigiano del gruppo abbia insistito affinchè fosse rilasciato, ma che i capi non lo permisero. Durò tre giorni questo calvario, come l’agonia del Nazareno sul Golgota. Tre giorni di ovvio dolore e disperazione, per sé e per i suoi cari. Al terzo giorno venne portato in un bosco poco lontano, a Piane di Monchio, su una delle fosse già scavate e pronte chissà per chi. Nelle stesse terre non ancora asciugate dal sangue dell’eccidio precedente, quello dei nazifascisti. Importava? Si dice che Rolando abbia chiesto di pregare, certamente per i suoi genitori, forse anche per i suoi assassini. Sì, di certo anche per i suoi assassini. Come altri 20 anni prima, stessa terra, stesso amore, stessi valori. Diversi solo gli orchi. “A cuore aperto, con la preghiera che mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo”.

Come don Giovanni Minzoni ucciso dai fascisti di Italo Balbo, anche Rolando pensando al suo Gesù, a cui voleva dedicare la vita. Venne ucciso con due colpi di pistola, come un ladro, come un criminale. Una alla tempia, la seconda al cuore, quello che mancava agli assassini. E il corpo subito ricoperto con la terra e le foglie del bosco, per meglio nasconderlo. Nasconderlo poi da chi? Era venerdì, come il giorno in cui venne ucciso il Nazareno, a cui Rolando volle dedicare la propria vita. La notizia fece molto scalpore in paese, corse veloce come il lampo d’ un fucile e anche qualche partigiano parlò. Già il giorno dopo si arrivò alla fossa. Il corpo venne recuperato e trasportato alla chiesa di Monchio ove la domenica avvennero le funzioni funerarie, tra il dolore generale. Domenica, il giorno in cui risorse il Nazareno. Finita la guerra, calmati gli animi, il 29 maggio ‘45 i paesani di San Valentino vollero che la salma di Rolando fosse traslata nella sua chiesa, anzi dentro la chiesa, nel sacrario destinato ai parroci, sebbene non lo fosse mai stato. Ma quello era il suo sogno, mai potuto sulla terra realizzarsi avendo un martedì dopo Pasqua, sulla sua strada, incontrato discepoli sbagliati, convinti da un dio diverso e di certo più vendicativo, perduti negli istinti di odio verso gli ‘altri’. Saranno identificati i colpevoli: il comandante della 27a Brigata Garibaldi ‘Dolo’ Delciso Rioli e l’omicida Giuseppe Corghi. Saranno condannati nel 1952 dalla Corte di Appello di Firenze a 22 anni, ma alla fine dopo 6 anni usciranno per le consuete amnistie, già note. Rolando verrà beatificato da Papa Francesco il 28 marzo 2013, a conclusione dell’iter di canonizzazione iniziato già nel 2006 e approvato nel 2012 dalla commissione vaticana come ‘ martirio in odium fidei’.

Ma la storia non finisce qui. Solo pochi anni fa, nel 2018 nel 73° anniversario del martirio, Meris Corghi, figlia di Giuseppe, il reo confesso dell’omicidio, ha voluto chiedere a Marisa, sorella di Rolando, il perdono per il padre, allora già deceduto analogamente ai genitori del piccolo seminarista. E ovviamente Marisa lo avrà concesso. Non credo diversamente, essendo cresciuta in una famiglia cristiana, ove era germogliato quel piccolo fiore, reciso a 14 anni, quasi 15. Un atto che fa onore a chi è venuto dopo, sia dalla famiglia di Rolando che di Giuseppe. Giuseppe colui che fermò sulla terra i sogni di un ragazzo orgoglioso di portare l’abito talare, simbolo della sua offerta a Dio. Giuseppe che al momento del processo a Lucca pareva freddo e poco disposto al pentimento. Giuseppe quello che già il 14 aprile, quando venne individuato e gli vennero chieste notizie su un seminarista scomparso, rispose sicuro: ‘L’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo’. Non deve esser stato così tranquillo, malgrado i benefici delle amnistie, non deve aver vissuto così tranquillo, se la figlia anni dopo sentirà il bisogno di chiedere per suo conto il perdono.

La vicenda mi ricorda quella del comandante Lepore di Vò Vecchio, - il campo di concentramento fascista vicino a casa mia - sebbene la storia non ci dia a sapere del suo vivere successivo. Anche lì ordini superiori, anche lì il vestito che ti trasforma da ‘soldato’ in ‘criminale’, perché anche il giovane Rolando potrebbe quasi ripetere le medesime parole di Karel Stojka: ..”non sono stati Stalin o Tito a sequestrami, picchiarmi, ad uccidermi perché indossavo l’abito talare. Furono il lattaio, il vicino di casa, il calzolaio, il dottore, a cui fu dato un ideale, un sogno e credettero che quell’ideale, quel sogno, permettesse loro tutto, giustificasse ogni loro violenza”. Sicuramente qualcuno adita nell’omicidio di Rolando alibi di vendetta per i precedenti eccedi nazifascisti. Può darsi. Non va escluso. Ma quel comunismo alla fine da noi non ha vinto lo stesso, anche se sono innegabili i meriti e i sacrifici nella lotta contro l’oppressore nella guerra di Resistenza. Già con le elezioni del 1948 l’Italia post-guerra scelse un’altra strada, più moderata e quella scelta - giova ricordarlo – venne rispettata da tutti, anche da chi perse.

Cosa non scontata in quegli anni e che fa onore a quegli uomini. La morale è sempre la medesima: col terrore, le minacce, l’odio puoi vincere una battaglia ma non la guerra. La ribellione, il pianto, le grida, forse i calci di Sara Gesess a Vò Vecchio che non voleva partire verso Auschwitz allora, e la paura, le lacrime, le preghiere forse anche per i suoi assassini di Rolando, ora, sono cicatrici indelebili che non possiamo dimenticare o nascondere col detto ‘il fine giustifica i mezzi’. No. Non è vero. Il fine non giustifica i mezzi e la forma conta quanto la sostanza. E’ sempre sostanza. E se la forma è violenta e criminale, non può esser accettata.

Il sogno di un ‘comunismo ideale’ anche sulla terra, da noi ha trasformato un semplice partigiano in un criminale che non ha avuto compassione per un ragazzo di 14 anni, quasi 15, vestito da prete, che poteva essere suo figlio. Il sogno di un ‘comunismo ideale’ anche sulla terra, da noi ha trasformato un gruppo di partigiani in spettatori inermi di un crimine, senza che nei fatti intervenissero. Anni di lotta e soprusi hanno portato a chiudere gli occhi e confondere l’odio e la vendetta con i valori per i quali forse si era partiti un giorno, scappando in montagna a combattere: la libertà, la solidarietà, una migliore uguaglianza sociale, il diritto ad avere ‘diritti’ . Valori prima mancanti o cancellati, dal ‘demonio’ fascista che si voleva sconfiggere e mai più far tornare. In eterno. La vicenda di Rolando ha insegnato questo e non è poco.

Ma non è l’unica che va citata. C’era un altro ragazzo di 14 anni, quasi 15, coinvolto dal terremoto di quegli anni, in quel territorio. Era Sergio Paderni, il ragazzo anch’egli vestito di nero che uccise don Pasquino Borghi. Solo un anno prima, il 30 gennaio ’44 sempre a Reggio veniva infatti fucilato don Pasquino, il parroco di Coriano Tapignola, lì vicino, da tempo nel mirino per aver aiutato più volte militari sbandati o partigiani tanto da divenire poi lui stesso partigiano (nome di battaglia ‘Albertario’) nella formazione Fiamme Verdi di Reggio, raggruppata attorno ad un altro sacerdote, don Domenico Orlandini (‘don Carlo’). Dopo l’omicidio di Angelo Ferretti, un colonnello fascista repubblichino, del 14 dicembre venne ordinata una rappresaglia e uno degli obiettivi, assieme ad altri 8 antifascisti, fu proprio don Pasquino, sebbene non fosse assolutamente provato di esserne coinvolto. Ma importava? Importava davvero?

Gli assassini vennero anche qui tutti presi nel dopoguerra e condannati a 24 anni, ma anch’essi beneficiarono nel 1948 delle famose amnistie. Nel gennaio 1947, a don Pasquino verrà conferita dal Presidente della Repubblica la medaglia d’oro al valor militare. Nel caso di Don Pasquino ad uccidere era stato il ragazzo Sergio Paderni, armato da uomini vestiti di nero, ma quel vestito nero non era un abito talare. Aveva quel giorno davvero neanche 15 anni, gli ultimi passati in un collegio del regime, ove l’Ave Maria serale e mattutina era diversa: ‘credere, obbedire e combattere’.

Anni dopo chiederà perdono di persona. Anni prima sua madre lo chiese personalmente ad Orsola Del Rio, la madre di don Pasquino, per conto di suo figlio. Da madre a madre. E le madri quando serve si capiscono, vanno direttamente all’obiettivo, magari piangendo assieme. In quel 30 gennaio ’44 erano morti sia i sogni di don Pasquino ma anche quelli di un ragazzo armato da altri carnefici. In un mondo normale a 14 anni, quasi 15 si vive per i propri sogni, modesti come l’amore di una bella ragazza o più eccelsi come la dedizione a Gesù e al prossimo. In quel mondo parallelo di guerra e falsi miti o business, a 14 anni, quasi 15 si moriva pregando o si uccideva, ubbidendo plagiati, per ordini superiori. Morendo dentro, poi. Morendo dentro, ugualmente. Assieme ai propri sogni.

Che Rolando e Pasquino, due vite così diverse e così uguali, ci aiutino a restare sempre nel mondo normale e a credere nei sogni puliti e ‘propri’ dei ragazzi di 14 anni, quasi 15. Rolando e don Pasquino confermano il fatto, indiscutibile, che a pagarne spesso le spese furono gli uomini della Chiesa, quelli ‘sul campo’ presenti e vivi, che a differenza di don Abbondio non accettarono il ruolo di spettatori, ma preferirono seguire i dettami del cuore, indipendentemente da chi questo favorisse o contro chi questo andasse a sbattere.

Credo che questo sia il ruolo naturale di chi sceglie la strada del Vangelo, una strada per nulla mai facile, irta di pericoli. Massimo onore, riconoscenza e rispetto a loro. Una volta, come ora. Perché anche oggi si preferisce il silenzio assordante di Don Abbondio, piuttosto che una predica del Vangelo quando questa va contro i nostri interessi elettorali. Il grande Papa Francesco - credo – ne sappia oggi qualcosa.

13 aprile 2024 – 79 anni dopo - liberamente tratto dal mio ‘La colpa di esser minoranza’ - cap. 7: Dove i sogni vanno a morire. - Ed. AliRibelli - 2020

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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